A pochi giorni dalla sentenza d’Appello nell’ambito del cosiddetto caso Vividown , la difesa e l’accusa serrano le fila per convincere i giudici italiani delle rispettive ragioni.
La tesi difensiva dei legali di Google insiste nel rivendicare l’assenza dell’obbligo giuridico del controllo per l’Internet provider rispetto alla pubblicazione dei contenuti. Secondo gli avvocati Giulia Bongiorno e Giuseppe Vaciago, la sentenza di condanna di primo grado fa riferimento a un obbligo “di cui non c’è traccia” nell’ordinamento italiano. Una tesi, peraltro, supportata di recente da uno dei tre imputati, Peter Fleischer, il quale ha ripercorso le tappe della vicenda mettendo in luce le implicazioni giuridiche e politiche.
Dal canto suo, il sostituto procuratore generale di Milano Laura Bertolé Viale ha chiesto ai giudici d’Appello la conferma della condanna a sei mesi di reclusione inflitta in primo grado nel febbraio 2010. Una decisione che riteneva i tre imputati colpevoli di violazione delle norme sulla privacy per non aver impedito la pubblicazione, sulla piattaforma Google Video, di una clip in cui si vedeva un minore disabile vittima degli atti di bullismo compiuti dai compagni di classe. Secondo il procuratore generale , i tre dirigenti di Google avrebbero dovuto effettuare un controllo sui dati caricati in Rete, un controllo preventivo che avevano la possibilità di fare e che non è stato fatto per ragioni di costi.
Se c’era qualcuno che aveva l’obbligo di vigilare, sostiene invece la difesa , era la professoressa dell’istituto tecnico di Torino responsabile del gruppo di studenti protagonisti delle scene di bullismo. Una linea difensiva, dunque, che non modifica le ragioni sostanziali già espresse nel primo grado di giudizio e che invita a considerare l’inopportunità di assegnare ai servizi di hosting responsabilità sui contenuti ospitati.
La sentenza d’Appello è attesa per il 21 dicembre.
Cristina Sciannamblo