Il titolo di oggi non può essere certamente definito polemico, visto che è la sintesi di quello dell’editoriale con cui esordiva il 28 Novembre 2016 “Agenda Digitale”, il giornale digitale che si definisce “Il primo giornale sull’Agenda Digitale Italiana”. Non trovate che la parola “digitale” sia un tantino cacofonica nella frase precedente, e ne renda piuttosto difficile la comprensione?
Avete perfettamente ragione, e la cosa non è forzata dalla penna di Cassandra, ma rappresenta invece un campione significativo di quello che è a tutt’oggi il valore comunicativo dell’Agenda Digitale Italiana.
Su queste tre parole si sono accumulate troppe iniziative, troppi proclami, troppe “novità”.
Un errore di comunicazione molto grave . Ma è più grave ancora che la comunicazione sia l’ultimo dei problemi riguardanti l’Agenda Digitale Italiana.
Intendiamoci, personalmente Cassandra ritiene il giornale di cui sopra una preziosa e ben fatta fonte di informazioni, anche se ovviamente è “di parte”; Cassandra è anche la prima a voler vedere (e nel suo piccolo a fare) un’Italia più “digitale”. E ritiene anche utile, anzi doverosa, l’esistenza di un Ente come A.G.I.D., se può agevolare, promuovere e aiutare in ogni modo lo sviluppo del “digitale” in Italia. Ma “digitale” con la “d” minuscola: “Italia” ha l’iniziale maiuscola, “digitale” deve essere minuscolo per poter diventare davvero pervasivo.
L’Italia digitale negli ultimi 20 anni ha fatto passi da gigante e cose egregie . Per capire come correre incontro al futuro che vogliamo dobbiamo come al solito guardare al passato. Ad un passato recente, stavolta, come ad esempio la firma digitale .
L’Italia si è posta all’avanguardia nell’uso legale della firma digitale, essendo stato il primo Paese ad avere attribuito piena validità giuridica ai documenti elettronici. L’ articolo 15 della L. 59/97 (e D.P.R. n.513/1997) stabilisce infatti che “gli atti, dati e documenti formati dalla Pubblica Amministrazione e dai privati con strumenti informatici o telematici, i contratti stipulati nelle medesime forme, nonché la loro archiviazione e trasmissione con strumenti informatici, sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge”.
Esatto, era il 1997; venti anni orsono! Ed allora dopo l’obbligatorietà della presentazione dei bilanci aziendali per via telematica, un milione di dispositivi di firma furono emessi per consentire agli amministratori delegati delle società di adempiere l’obbligo. È pur vero che i cassetti di molti commercialisti finirono pieni di smartcard con il PIN scritto sopra a pennarello… ma questa è un’altra storia.
Poi la necessità di integrare la firma digitale italiana con le direttive europee ha complicato la situazione e prodotto la proliferazione dei tipi di firma. Per farla breve: il D. Lgs. N. 10/2002, poi D.P.R. n 137/2003, poi Codice dell’Amministrazione Digitale – C.A.D. (D.Lgs 82/2005), poi le modifiche al C.A.D. del 2010 e infine il D.P.C.M. 22 febbraio 2013 hanno fatto “ordine” (sic.) nel valore legale della firma elettronica, creando un’enorme confusione nella situazione in generale e soprattutto negli utenti “normali”.
Il risultato finale di tanto lavoro è un’adozione della firma digitale limitata ad ambiti precisi (come il Processo Civile Telematico), e quasi completamente ignorata dai normali cittadini.
Non c’è la volontà di cercare un colpevole, solo il “metodo” che male ha servito la diffusione di una utile tecnologia digitale, anzi le ha tagliato le gambe. Se poi aggiungiamo alla storia della Firma digitale quella parallela dell’identità digitale, dovremmo cominciare a parlare di moltiplicazioni.
Partiamo dall’indiscutibile verità tecnica che un’unica smartcard, potendo contenere più chiavi crittografiche e certificati digitali, è in grado di servire contemporaneamente da dispositivo di firma digitale, da Carta di Identità Elettronica, da Tessera Sanitaria (CNS) e da SPID-3 (quando e se esisterà).
Le necessità di moltiplicare per quattro queste smartcard ha ragioni burocratiche e normative assolutamente non semplici e di non facile risoluzione, che sono il vero problema da risolvere. Non è questione di tecnologie.
Poniamoci allora una domanda. Nei diciannove (dicasi diciannove!) anni passati dall’introduzione della prima tecnologia dell’Italia digitale, invece di buttare soldi e anni nel moltiplicare le smartcard e inventare nuove soluzioni per problemi già risolti o inesistenti, non sarebbe stato più logico, economico, efficiente e quindi doveroso, realizzare riforme legislative e semplificazioni burocratiche , continuando ad usare quello che già esisteva?
Non è il caso di tediare ulteriormente i 24 incolpevoli lettori sciorinando altri fatti, dati, leggi e storie. Arriviamo perciò direttamente alla semplice risposta per la domanda iniziale. Cosa c’è da meravigliarsi se le “novità” non riescono a partire, e sono sostanzialmente rifiutate dai cittadini?
La complessità tecnologica e organizzativa regna sovrana e aumenta . Tutti vogliono cavalcare una nuova tigre quando le vecchie sono ancora da domare. I cittadini ogni due per tre sentono strombazzare della nuova rivoluzione prossima ventura, ma devono tuttora scontrarsi con il problema di far funzionare il lettore di smartcard ed il token di turno sul proprio computer, perché ogni “novità” interferisce in maniera distruttiva con le precedenti.
Chiunque abbia lavorato in grandi aziende, sa che convivere con tecnologie passate e farle coesistere in maniera efficiente con le nuove è, quando possibile, la via maestra per il successo.
C’è poi da meravigliarsi se le novità dell’Agenda Digitale stentano a decollare?
A parere di Cassandra no, e per quattro semplici motivi, assolutamente non tecnologici ma pratici. Le “novità” che si vogliono introdurre non sono indispensabili , sono costruite senza utilizzare e integrare quanto già costruito e che funziona, non tengono conto dei processi esistenti, e soprattutto non rispondono ad esigenze sentite e reali dei cittadini .
Tutto qui.
Marco Calamari
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