Roma – Capita talvolta, apprendendo una notizia o venendo a conoscenza di qualcosa, di provare un brivido lungo la schiena. Alle persone come me ipersensibili verso le violazioni della privacy questo capita sempre più di frequente.
Viaggiando sul filo della memoria ricordo un vecchio brivido degli anni ’80, quando un collega di lavoro mi mostrò come era semplice recuperare informazioni cancellate (ed allora ero convinto che fossero davvero cancellate) dall’hard disk di un pc.
Una decina di anni dopo , il fatto di vedere il mio nome in fondo allo scontrino del supermercato “Arrivederci, sig. Calamari” mi paralizzo’ per qualche secondo alla cassa.
E nel 2000 ebbi lo stesso flash quando, dopo aver chiamato un taxi via cellulare, mi senti chiamare per nome mentre salivo in vettura; un caso di incrocio dati realtime tra l’identificativo del chiamante ed i dati storici presenti negli archivi della compagnia dei taxi. Sarebbe stato interessante coinvolgere il Garante sulla questione, ma non ne feci di niente.
Nel 2002 invece lo provai leggendo un articolo di “nera” dove si annunciava orgogliosamente che gli investigatori avevano incastrato un camionista assassino ricavando la sua posizione durante e dopo il delitto dal cellulare da lui usato. Il bello è che già da tempo si discuteva della pericolosità dei dati di cella mantenuti dai gestori delle reti GSM. Il fatto che l’impiego dei dati nel caso illustrato avesse avuto il positivo effetto di risolvere un caso di omicidio non attenuo’ minimamente la sensazione.
E veniamo ad oggi; un famoso blog rilancia un comunicato stampa annunciante una tecnica che permette, analizzando il rumore di fondo dell’immagine, di associare ad ogni immagine digitale il particolare apparecchio fotografico che l’ha scattata.
Potenza del mondo digitale, che per la privacy è sempre un vero anatema!
Partendo da una fotografia digitale e da una fotocamera digitale è quindi possibile determinare se l’immagine è o non è stata scattata dalla fotocamera. Se sì, rintracciando il numero di matricola della fotocamera nel database delle fatture o dei tagliandi di garanzia, è possibile risalire al nominativo dell’acquirente e probabile autore della foto.
Ma c’è di peggio. Da quanto detto consegue che è possibile associare due diverse fotografie tra loro pur senza avere disponibile l’apparecchio che le ha scattate, semplicemente verificando che il “rumore” presente nelle due foto sia lo stesso. Il contenuto delle immagini (volti, persone, oggetti, fatti) puo’ così essere messo in relazione anche a grande distanza di tempo e senza dover avere a disposizione l’apparecchio che le ha scattate.
Se ciò costituisse prova in un processo, esistono anche possibilità di falsificazione con conseguenti contenziosi giudiziari; cancellare il rumore da un’immagine e sostituirlo con quello di un’altra potrebbe essere una tecnica di falsificazione complessa ma funzionante.
Veloce estrapolazione: qualunque processo di digitalizzazione, probabilmente anche quelli realizzati con i normali scanner, lascia tracce indelebili ed invisibili nei dati che produce, come un sistema di watermarking automatico. Le nostre foto e scansioni restano indissolubilmente legate tra loro e con noi.
“Infosmog” è il neologismo che indica la nuvola di dati che continuamente produciamo, diffondiamo e disperdiamo nella Rete ed anche fuori di essa, e che vengono spesso saldamente archiviati nel mondo reale. Si tratta di una realtà conosciuta da tempo e di cui i paranoici professionisti come me parlano da anni. Ecco che pur credendomi “vaccinato”, sono stato colto di sorpresa da un nuovo brivido.
Ed il Grande Fratello , sorridendo, incocca un’altra freccia al suo arco.
Marco Calamari
Le precedenti release di Cassandra Crossing sono qui