Cassandra, come ormai molti qui ricorderanno, era costretta, per sue doti personali a profetizzare fatti negativi, anzi spesso autentiche disgrazie. Pur destinata a non essere mai creduta, pare si divertisse ogni tanto a profetare semplicemente per diletto, magari rivolgendosi a visioni di un futuro non immediato ma remoto. Radioso o fosco, chissà.
Per farla breve, queste righe sono nate da una serie di considerazioni su due meme delle Rete, uno assai vecchio “Ubiquitous Computing” – computer pervasivi, e l’altro abbastanza nuovo “Internet of Things” – L’internet delle cose.
Sono due facce della stessa medaglia.
Da un lato i computer che da una parte si moltiplicano negli oggetti comuni, vi si inseriscono in profondità (o forse sarebbe meglio dire “si nascondono”) fino a scomparire del tutto proprio mentre permeano completamente la nostra sfera personale, il nostro ambiente vitale.
Dall’altro gli oggetti che si collegano tra loro in Rete, fino a permearla, nascondendola completamente ai loro proprietari. “L’Internet delle Cose” quindi, ma nel senso di “Internet posseduta dalle Cose”.
Dallo scontro di queste due categorie nasce un dubbio, anzi una preoccupazione, riguardo a quello che potrà succedere tra pochi anni, quando i computer e la Rete scompariranno dentro gli oggetti quotidiani (come il frigorifero quadrimensionale a inversione di entropia) e contemporaneamente i nativi digitali diventeranno la maggioranza della popolazione. Cosa sarà di noi “emigrati digitali” quando la Rete non ci sarà più? Quando la nostra amata Rete, come i computer, si sarà trasferita dentro gli oggetti e l’internet delle cose, per sua natura invisibile, ne avrà preso il posto?
Sono il solo a preoccuparsene, o qualcuno dei miei simili mi legge ed è pure lui turbato?
Intanto sediamoci attorno al fuoco ed ascoltate il saggio anziano raccontare, anzi ripetere per l’ennesima volta, una delle sue ingenue storie: proprio come Enrico la Talpa.
Si dice che un pizzico di fortuna sia sempre necessario per ogni impresa significativa: ne ebbi anche io quando decisi uno dei miei frequenti cambi di lavoro (fatto in realtà non per scopi scientifici, ma per stare più vicino alla mia ragazza) che mi portò a lavorare in un laboratorio della ricerca e sviluppo della divisione Personal Computer della Olivetti. Ricordo quell’ambiente di lavoro come il più bello e stimolante tra le mie esperienze lavorative, ma un suo aspetto a me allora ignoto mi ha cambiato la vita.
L’Olivetti infatti aveva un grosso laboratorio di ricerca a Cupertino, in Mariani Avenue 4 (e, l’ho già detto, voi sapete chi c’era al numero 1), che ospitava Olivea, uno degli 11 host di Arpanet/NSFNet che costituivano la dorsale della Rete di quei tempi. Il laboratorio dove lavoravo era connesso a quella velocissima rete a ben 9600 baud grazie ad un cavo seriale transoceanico, e quindi io potevo accedere all’immensa mole di dati che transitava su tutta Internet, qualcosa come 40MB al giorno. Non c’era nemmeno il DNS, e si marciava a forza di file /etc/hosts.
Certo, Tim Berners-Lee si dilettava ancora di particelle elementari al CERN, il Web non esisteva e posta elettronica e newsgroup rappresentavano gli strumenti più sofisticati di interazione. Ma bastavano ampiamente per dotarti di superpoteri, che in Italia solo poche persone, prevalentemente universitarie, avevano a quel tempo senza magari neppure sfruttarli.
In un mondo dove la mancanza di un driver immobilizzava per mesi apparecchiature che costavano quanto un piccolo condominio, e richiedeva riunioni globalizzate per essere risolto (e magari di riscriverlo pure), se avevi un problema tecnico bastava fare una educata richiesta nel newsgroup adatto. In poche ore, magari da tre continenti diversi, i guru della materia ti inviavano cortesi ed esaustive risposte che non avresti mai potuto avere altrimenti. Ma erano i tempi in cui tardare un giorno a rispondere ad una mail veniva considerato una imperdonabile mancanza di educazione.
Ah, ma tutto questo ve lo avevo già raccontato? Lasciatemi continuare.
Ricordo che all’epoca parlavo di Internet con toni messianici a tutti i miei conoscenti che non l’avevano mai nemmeno intravista. Un mio parente, sempre grande fruitore di tecnologie (come Castle Wolfenstein su Apple II) ma che giustamente le poneva in secondo piano rispetto alle donne, mi ha confessato dopo anni “Sai che quando mi parlavi di Internet mi sembravi scemo? Invece avevi proprio ragione”. Questo per spiegare quanto la Rete fosse già allora importante per noi immigrati digitali, e quanto, almeno io, fossi flippato per essa.
Poi la Rete ha permeato la vita di tutti, e questo ha anche permesso a molti immigrati digitali come me di costruire carriere lavorative aiutando a traghettare immigrati digitali, facendosi belli (per necessità) con capitribù digitali, e sopratutto educando nativi digitali.
Ma se la Rete sparirà veramente? Cosa ne sarà di noi immigrati?
Diventeremo pensionati in qualche casa di riposo, dove continueremo a ripetere storielle di quando gli uomini erano uomini e si scrivevano da soli i propri device driver? O piuttosto alcuni di noi dovranno trasferirsi nella zona grigia in cui abita il Jimi di Salvatores, dove vivono i pochi che sanno come veramente funzionano le cose, e che vivono in bilico, utilizzati ma anche perseguitati dalle grandi multinazionali?
Oppure…
Ma ai nativi digitali questo, come tutto ciò che sarà nascosto dentro gli oggetti della vita quotidiana, figli e nipoti di Nabaztag e tanto potenti quanto opachi, non interesserà affatto. Troveranno del tutto normale parlare alla loro Google-parete per ordinare la loro gelatina alimentare preferita, e prima o poi riceveranno la risposta che il menu prevede solo soylent verde .
Forse dovremmo proprio fermarli, prima che sia troppo tardi!
Lo Slog (Static Blog) di Marco Calamari
Tutte le release di Cassandra Crossing sono disponibili a questo indirizzo