Malgrado i moniti di Aurelio Peccei , del MIT e del Club di Roma, i mondi dell’economia e della politica si comportano come se realmente lo sviluppo geometrico della produzione e dell’economia potesse proseguire all’infinito, e non fossero invece strade certe per la catastrofe.
Il famoso rapporto del 1972 “I Limiti dello sviluppo”, applicando con molta ragionevolezza le tecniche di simulazione dei sistemi sviluppate in quegli anni, tentava di modellare il mondo espresso in termini di risorse non illimitate, e ne estrapolava scenari in cui una crescita della popolazione e/o dello sfruttamento delle risorse naturali conduceva inevitabilmente alla catastrofe. Dileggiato perché i modelli inseriti nel Rapporto prevedevano situazioni molto vicine che poi non si sono presentate, è stato prontamente dimenticato, specialmente da coloro che avevano interesse a farlo.
Dagli anni ’90 però le sue parole riecheggiano nuovamente come quelle del Grillo Saggio di Pinocchio: la martellata ricevuta non l’ha cancellato completamente.
Ora che la politica ha cominciato pubblicamente a preoccuparsi (spesso in maniera ipocrita, propagandistica e strumentale) dei limiti dovuti alla finitezza del nostro pianeta, il Rapporto riacquista una straordinaria attualità perché, al di là di tipo e data della catastrofe prossima ventura (comunque prevista in questo secolo dalla maggior parte delle simulazioni) le dinamiche che prevedeva sono state clamorosamente confermate dai dati storici accumulati negli ultimi 30 anni.
Del resto il senso comune, unito ad un minimo di matematica, ha da sempre reso evidente che uno sviluppo geometrico nel mondo materiale non è sostenibile in nessun caso. Ma come già detto, tutti i leader del mondo e dell’economia, dopo essersi strappati i capelli per il riscaldamento globale, l’inquinamento, il buco nell’ozono e l’esaurimento del petrolio tornano ad inneggiare e perseguire lo sviluppo e la crescita illimitati.
Un tale atteggiamento può essere dovuto a tre cause: ignoranza, disonestà o ipocrisia. La gente comunque non pare preoccupata, ma del resto non si accorge nemmeno di ribaltoni concettuali come quelli dell’energia eolica, passata nell’indifferenza da benedizione a devastazione.
L'”economia della decrescita”, teorizzata da pochi eretici, è una cosa nuova su cui rivendico una grande ignoranza: anche da ignorante sembra però evidente che questa sia l’unica risposta a lungo termine alle catastrofi prossime venture provocate dall’inquinamento e dall’esaurimento delle risorse naturali, ben previste appunto ne “I limiti dello sviluppo”.
Una “decrescita felice” sembra quindi l’unico obbiettivo a medio termine che possa forse portare contemporaneamente sopravvivenza, equità e benessere.
In questo cammino le economie “immateriali” come quelle che si svolgono prevalentemente o completamente nell’ecosistema della Rete potrebbero essere risolutive: possono (potenzialmente) creare valore e benessere senza richiedere risorse naturali o generare inquinamento.
Certo, non si dovrebbero sviluppare solo i call center via VoIP, che in paesi come il nostro sembrano essere l’unico aspetto percepito, ma quelle parti dell’economia immateriale che creano realmente valore: non solo quindi le parti più moderne come il ciclo di produzione del software, ma anche quelle più antiche, come il ciclo di produzione e consumo della cultura.
Il ciclo della cultura era già parzialmente immateriale in passato ed oggi è realizzabile, grazie alla Rete, in modo totalmente immateriale, ovviamente quando non forzato e violentato da IP e DRM.
Un modo di avere forse una “Decrescita Felice” dei consumi materiali e una “Crescita Felice” dell’economia. Ma chi deve lavorare in questa direzione? Forse economisti e politici? E spinti da chi?