Una delle migliori fonti per gli spunti di riflessione di Cassandra, Slashdot.org (le altre sono Wired US ed i forum di PI) ha pubblicato un post tanto illuminato quanto provocatorio. Per i 24 instancabili lettori, e probabilmente anche per altri, apparirà evidente come sia indispensabile raccogliere e sviluppare un un tema del genere.
In sintesi, pone una domanda: “Come vi sentireste di fronte alla prospettiva di registrare tutta la vostra vita? Potreste averla sempre a vostra disposizione per ricordare cose dimenticate, per mostrarle a figli e nipoti…”.
Fantastico. Mi ricorda tanto le temutissime sessioni post-cena a casa di qualche coppia di amici per vedere obbligatoriamente le centinaia di diapositive dell’ultimo viaggio. Ma questa è solo una battuta: il tema è serio, e per chiarirsi le idee come al solito bisogna partire con il porsi delle domande oggettive, non il soggettivo “come vi sentireste?”. Tre domande per l’esattezza.
Cominciamo dalla più facile: Ma si può fare?
In breve, sì.
Più in dettaglio, dipende dalla “risoluzione” con cui si effettuano le “registrazioni di una vita”. Un paio di secoli fa poche foto, il matrimonio, il primo figlio, la partenza per il militare ed il gruppo con nonni, figli e nipoti, erano già considerate una buona “risoluzione”, sia in termini spaziali che temporali, per registrare una vita.
Poi le macchine fotografiche a basso costo, i Gelosini ed i K7 (qualcuno se li ricorda?), le videocamere, le fotocamere digitali, i registratori audio digitali, gli smartphone ed il “cloud” hanno moltiplicato in maniera incommensurabile la risoluzione sia spaziale che temporale delle informazioni registrabili da una persona di se stessa, ed un analogo immane progresso c’e stato per le possibilità di archiviazione.
Già oggi un ipotetico protagonista di un Total Recall fatto in casa può mettersi lo smartphone al collo con la telecamera ed il GPS accesi, ed a sera può scaricare da 1 a 10 GB contenenti tutto quanto ha ascoltato, visto e detto: con un po’ di tecnologia e qualche altro accorgimento anche tutte le proprie interazioni in Rete.
Un pezzo di cloud o un bel disco da 2 TB completano l’archiviazione di un’intera annata di vita. Se poi aggiungiamo per “buon peso” la compressione ed il continuo calo dei prezzi delle memorie di massa, senza dimenticare i servizi “gratuiti” di deposito delle informazioni che spuntano come funghi, la registrazione integrale della nostra vita è già possibile.
Ma per la gente normale ed i pigri? Niente paura: l’artigianalità presto non sarà più necessaria e tutto si ridurrà ad una bella app dello smartphone o del pad, che si incaricherà di tutto. Ovviamente gratis e disinteressatamente… o quasi.
La seconda domanda è più difficile: Ma è opportuno farlo?
Beh, qui è in questione un bilancio di convenienze personali.
Ricordare chi era quella persona vista anni fa ad una conferenza e cosa ci eravamo detti sarebbe utilissimo. Rivedere lo sciagurato che ti tampona e se ne va ed altri accidenti della vita quasi indispensabile. Vedere Sofia che si attacca al divano e comincia a camminare, impagabile. Ed ancora, poter mostrare senza ombra di dubbio quello che si è detto ed ascoltato avrebbe utilità immensa (possibili falsari digitali a parte).
Certo, ci sarebbe il rovescio della medaglia: l’impossibilità, o almeno la difficoltà di dimenticare. Non l’abusato concetto di “Diritto all’oblio”, così caro a chi di Rete non ha ancora afferrato nemmeno i fondamentali. No, l’oblio in assoluto. Ciascuno potrebbe e dovrebbe avere il tasto “Delete” del suo archivio della vita, almeno per dimenticare, se lo desidera, gli episodi dolorosi, ma non potrebbe mai avere quello di tutte le persone intorno a lui che lo hanno registrato come “sfondo” della loro vita. Altro che “Diritto all’oblio”, piuttosto “Obbligo del ricordo”.
La terza domanda, la più paranoica e perciò più virtuosa, è: Ma è già così?
Torniamo al problema della risoluzione spaziale, temporale e della durata di conservazione dei dati sulla vita di una persona.
Le vite sono da sempre registrate. Secoli or sono individui scrivevano il diario e conservavano una donata pansè tra le sue pagine: bancarelle e negozi di libri usati ne permettono un imprevisto e probabilmente indesiderato accesso.
Nel secolo scorso la Stasi ha archiviato, usando semplice carta, dati sul più grande controllo sociale di Stato: persone hanno scritto di altre persone, abbastanza da rendere registrata e controllata la vita di tutta una nazione per decenni.
Oggi orde di nativi digitali scattano migliaia di immagini e filmati in un anno e ne riempiono hard disk, dvd e, peggio, “nuvole” e “profili”.
Tutti i governi registrano, spesso per scopi socialmente utili, ma anche decisamente no, la vita delle persone.
E per concludere, se è già così, se lo è da tempo, perché porre adesso la questione? O, per dirla in termini semplici, perché preoccuparsi? Tre risposte secche.
Perché la risoluzione spaziale e temporale di quello che viene registrato non solo cresce a dismisura ma acquista dimensioni aggiuntive: non più scritti, immagini e voci, ma anche video, geolocalizzazione, gesti, biometria, DNA, interazioni in Rete.
Perché la possibilità delle persone di esercitare un qualche controllo su questo crescente volume di informazioni diventa al contrario sempre più piccola fino a scomparire del tutto: ringraziamo il cloud, le leggi antiterrore e le cosiddette comunità sociali.
Perché gli individui non solo perdono la nozione di quello che viene registrato, non solo perdono la percezione di essere registrati, ma perdono la percezione dell’importanza di questo fatto.
Quest’ultimo è senz’altro il vero problema. A costo di annoiare, non portate dentro quel cavallo di legno.
Marco Calamari
Lo Slog (Static Blog) di Marco Calamari
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