Las Vegas – Un problema globale, un problema complesso che coinvolge (in modo diverso) tutti i paesi del primo, secondo e terzo mondo. E mentre negli USA si discute di regolamenti e leggi sulla spazzatura tecnologica, altrove e in particolare in Africa si fanno i conti con gli scarti e l’inquinamento da fine ciclo di vita del primo mondo. Greenpeace punta il dito contro questo tipo di pratiche , e con la quattordicesima versione della sua guida all’elettronica verde assegna qualche medaglia e tira le orecchie a qualcun altro.
“L’ewaste è un problema planetario – incalza Casey Harrell, membro del team che redige la classifica – occorre individuare dove finisce questa spazzatura elettronica, spesso dirottata in modo formalmente legale verso paesi come Nigeria, Ghana o l’India”. Un connubio tra il risparmio tra i materiali impiegati nella produzione, privilegiando l’economicità all’ecologia, e l’ esternalizzazione (in senso letterale e in senso lato) del problema dello smaltimento .
Per questo Greenpeace ha deciso di fare pressione su aziende competitive e molto attente al marketing come quelle IT, allo scopo di convincerle a investire con lungimiranza anche nella propria evoluzione in chiave ecologista: un’evoluzione che se portata fino in fondo potrebbe da sola abbassare del 15 per cento il totale dell’inquinamento industriale prodotto globalmente ogni anno .
Sugli scudi dell’aggiornamento di dicembre della classifica ci sono due produttori di telefonia mobile, Nokia e Sony Ericsson: a loro appannaggio il primo e secondo posto, con l’azienda finlandese in particolare ormai stabilmente al comando. Menzione speciale per Apple, primo produttore mondiale ad essersi assicurato la palma di un’offerta totalmente priva di PVC e ritardanti di fiamma inquinanti (BFR), ma in questo senso ci sono anche HP e Acer che stanno annunciando novità interessanti. Bacchettate per LG, Lenovo, Dell e Samsung: non sono state in grado di mantenere le rispettive promesse in fatto di ecologia , finendo per ricevere il biasimo dell’organizzazione ecologista.
Nella stima di Greenpeace non rientrano soltanto i materiali pericolosi eventualmente presenti nei prodotti di elettronica di consumo. Nel punteggio finale rientrano anche le politiche di recupero dei prodotti alla fine del ciclo di vita, nonché
L’obiettivo, come detto, è promuovere l’iniziativa dei produttori, penalizzando chi si limita a fare promesse e premiando chi invece risulti in grado di concretizzare le proprie green policy. Inoltre, Greenpeace cerca di coinvolgere le aziende che si impegnano in queste attività di conversione anche perché sostengano pubblicamente le tesi ecologiste: in ballo ci sono ad esempio la regolamentazione USA su risparmio energetico e riciclo , che a detta degli ecologisti rischia di arenarsi al Congresso. Un’attività complessa dunque, che coinvolge la sfera politica: “Stiamo facendo un lavoro di verifica che andrebbe fatto dai diversi paesi coinvolti” ironizza lo speaker.
“Per realizzare questa classifica ovviamente non ci basiamo sulle affermazioni delle aziende” chiarisce Harrell, illustrando il contributo offerto dagli uffici di Greenpeace sparsi per il mondo. Nelle intenzioni dei redattori c’è anche una più efficace valutazione puntuale delle iniziative dei produttori in base alle rispettive attività: per un produttore di cellulari è più facile scalare la classifica, grazie alla frequenza con la quale il suo listino va incontro a modifiche. Lo stesso non si può dire, tanto per fare un esempio, di chi produce console videoludiche e che magari ne introduce una nuova a parecchi anni di distanza dalla precedente.
I risultati, diretti o indiretti, di questa azione di pressing di Greenpeace secondo i suoi promotori sono evidenti: tra gli altri citati i casi di Panasonic e Philips , due aziende che hanno deciso di riassorbire la gestione dei prodotti a fine ciclo di vita e che grazie a queste e altre scelte hanno guadagnato posizioni in classifica. Uno dei punti maggiormente dibattuti riguarda inoltre i comportamenti “ambigui” dei marchi: qualunque tentennamento, qualsiasi dichiarazione contrastante fatta magari da una parte e dall’altra dell’Oceano, viene attentamente valutata dall’organizzazione ambientalista per tentare di giocare sullo stesso piano delle lobby.
Il quadro nel complesso, secondo Harrell, non è poi troppo negativo: “Oggi forse non è ancora molto conveniente diventare verdi, ma le aziende che lo fanno vengono premiate: il costo per farlo oggi è senz’altro inferiore a quello necessario in futuro, i prodotti ecologici sono più facili da esportare, e con un corretto recupero e riciclo le aziende possono puntare anche a riutilizzare componentistica prelevata dai rifiuti, risparmiandoci. Il problema è che a volte sono talmente concentrate sul generare profitti che non riescono a cogliere questi vantaggi a medio termine”. Tutto sommato, c’è da essere ottimisti : “Non siamo ancora soddisfatti – conclude – ma il trend è buono: e ci sono altri settori diversi dall’IT molto peggiori”.
Luca Annunziata