Intel è stata colpita da cyberattacchi di alto profilo nello stesso periodo di quelli subiti da Google in Cina. Già Mountain View, d’altronde, aveva raccontato che almeno altre 30 aziende sarebbero state vittime dell’affondo.
Ma se nel raccontare l’offensiva Intel ha rilasciato dichiarazioni di carattere generico, non specificando né i possibili sospetti, né la provenienza, né esplicitamente se da esso ha subito danni o furti di dati, al contrario Google aveva da subito puntato il dito contro Pechino e, di conseguenza, annunciato l’intenzione di lasciare la Cina. Da lì la situazione era sembrata degenerare, fino a coinvolgere le diplomazie nazionali, i rapporti tra Stati Uniti e Cina e le imposizioni nei confronti delle aziende straniere che vogliono lavorare nel paese.
Si era così creato uno stallo, il governo statunitense da un lato a controllare la situazione delle sue aziende in Cina, il governo di Pechino a minacciare reazioni e a respingere con veemenza le accuse al mittente. Stallo che solo le ultime rivelazioni sembrano aver sbloccato: vi sarebbero prove che mettono nuovamente in relazione l’attacco che ha scatenato la reazione di Google e il governo cinese.
L’autore del codice dietro l’attacco (non quindi colui che l’ha condotto) sembra essere un consulente freelance per la sicurezza con collegamenti con il governo cinese. Mentre i computer usati per gli attacchi erano già stati individuati come appartenenti a due istituti scolastici.
Subito dopo la notizia, Mountain View e Pechino sembrano avere l’intenzione, a breve, di riprendere le discussioni sulla futura presenza di Big G in Cina . Forse è stata proprio questa conferma ad aver permesso a Google di sedersi nuovamente al tavolo delle trattative, con una sicurezza in più, ora, di avere una mano vincente. Lasciare sul piatto il grande mercato cinese ( annullato , sembrerebbe, anche il lancio di Nexus One in Cina ) rappresenterebbe, d’altronde, una occasione persa anche per Big G.
Claudio Tamburrino