Le aziende occidentali che operano in Cina dibattono di codici di comportamento e di diritti umani. Ma all’atteggiamento corrisponde una reale intenzione di tutelare i propri utenti? Il Search Monitor Project traccia un panorama delle pratiche censorie operate dai motori di ricerca: ne emerge un quadro frastagliato, in cui l’adeguamento delle aziende ai criteri dettati dalle autorità di Pechino è disomogeneo.
A condurre l’indagine, sottoponendo a cinque mesi di test i più popolari motori di ricerca internazionali quali Google, Yahoo e MSN Search e il gatekeeper locale Baidu, è Nart Villeneuve , ricercatore dell’Università di Toronto attivo in Open Net Initiaive e CitizenLab . I motori di ricerca garantiscono agli utenti la possibilità di solcare il web, offrono ai cittadini della rete cinesi la possibilità di accedere ad una grande mole di informazione ma – ammette Villeneuve – quel che di più succoso e interessante è ospitato in rete rimane imbrigliato nei filtri imposti dallo stato.
Se la macchina censoria e propagandistica di Pechino funziona da anni a pieno regime, se gli addetti del Ufficio del Partito per l’Informazione e la Pubblica Opinione battono a tappeto il web per aggiornare le autorità dell’umore della rete, è vero però che non esistono disposizioni ufficiali e liste nere che orientino il comportamento dei motori di ricerca. Lo dimostra la frammentarietà e la disomogeneità con cui i colossi del search agiscono sulle ricerche dei cittadini della Repubblica Popolare: se i motori declinati nelle versioni locali sono compatti nel rimuovere dai risultati i riferimenti al movimento del Falun Gong, Google impedisce ai netizen cinesi l’accesso a BBC, Yahoo lo concede, Microsoft diffida da Wikipedia mentre Baidu impedisce l’accesso ad entrambi.
Il 33 per cento del web è inaccessibile ai cittadini cinesi attraverso un motore di ricerca: che la chiave di ricerca sia specifica e mirata come “Falun Gong”, che sia invece generica come “democrazia”, sui 393 siti presi come punto di riferimento, 130 si sono dissolti nei risultati con almeno uno dei motori presi in esame. Se il motore che setaccia la rete in maniera più decisa è Baidu, che censura il 26,4 per cento dei siti monitorati, Google è il più permissivo: lascia filtrare quasi l’85 per cento dei risultati, ne rende inaccessibile il 15,2 per cento. Le posizioni intermedie spettano a Microsoft e Yahoo: bloccano rispettivamente il 15,7 per cento e il 20,8 per cento dei siti scelti da Villeneuve.
Se la precedenza è data ai contenuti ipercontrollati dallo stato che risiedono su server cinesi o che sono contraddistinti dal dominio .cn , a fermarsi nel setaccio dei motori di ricerca sono soprattutto le vetrine web di attivisti e organizzazioni che si battono per i diritti umani, sono i siti di notizie che potrebbero garantire ai cittadini cinesi la possibilità di esercitare il proprio diritto ad informarsi e a prendere parte in maniera responsabile alla società civile. Nei risultati dei motori di ricerca non compare inoltre la pornografia che potrebbe corrompere la morale dei cittadini della Repubblica Popolare.
Oltre alla possibilità garantita agli utenti di accedere ai contenuti, Villeneuve ha preso in considerazione la trasparenza con cui operano i motori: se Google avverte i netizen dei filtri, Microsoft e Yahoo, a dispetto dei buoni propositi, non rendono esplicita la selezione dei risultati.
Se i colossi del search giustificano il proprio atteggiamento dichiarando di attenersi alle leggi locali, il report evidenzia che non esiste uniformità nel comportamento delle aziende, svincolate da liste nere sulle quali operare: sembrano adottare questa politica e sembrano rifugiarsi nell’ autocensura per evitare di attirare l’attenzione delle autorità. “Una cosa è il governo che blocca certi siti – ha commentato Arvind Ganesan di Human Rights Watch – Una cosa completamente differente sono le aziende che prendono autonomamente decisioni riguardo ai contenuti da bloccare”. Chiosa ottimista Ganesan: “C’è più spazio per le aziende per sviluppare delle linee guida e minimizzare la loro azione censoria”.
Gaia Bottà