Microsoft resta in Cina e dichiara che continuerà a rispettare le leggi locali: “Lavoriamo in Cina da più di 20 anni e intendiamo continuare a fare a affari qui”.
Le critiche all’indirizzo di Redmond erano giunte dal co-fondatore di Google Sergey Brin, che aveva accusato BigM di avallare iniziative contro i diritti umani e libertà di espressione, dicendosi poi dispiaciuto per Microsoft che sperava “non avrebbe messo i profitti davanti a tutto. In generale, le società dovrebbero fare attenzione a come e dove vengono utilizzati i loro prodotti”.
Il discorso di Brin, che ha paragonato la situazione attuale cinese al totalitarismo nell’Unione Sovietica vissuto nella sua infanzia, è stato seguito anche dalla divulgazione di una direttiva di Pechino ai media con le disposizioni su come trattare la sfida di Google alla censura governativa : usare come fonti esclusivamente i siti ufficiali dell’informazione statale, non cambiare i titoli, non proporre forum, non condurre investigazioni e approfondimenti, dibattiti possibili solo previa autorizzazione, vigilare sui commenti.
Il risultato è, per esempio, che il People Daily, organo del partito comunista, nell’editoriale dedicato all’argomento attacca veementemente l’azienda americana che “non è Dio” e neanche “una verginella quanto si parla di valori”, che “collabora con l’intelligence statunitense” e che “immagazzina per ispezionarli tutti i risultati delle sue ricerche”.
Con la stessa logica, poi, non esiste nei media mainstream cinesi la lettera con cui un gruppo che voleva farsi portavoce dei wanmin (gli utenti Internet cinesi) intendeva rivendicare un ruolo nella trattativa tra Google ed il governo. Sull’ argomento è tornato tra l’altro Matteo Miavaldi che, rispondendo ai commenti degli utenti di Punto Informatico , ha sottolineato come la situazione abbia dei confini molto sfumati: “Se Google davvero sta lottando per il popolo cinese, qual è stato il grado di coinvolgimento degli utenti cinesi in questa campagna di libertà? Qual è stato l’appoggio che un gigante come BigG ha dato alle comunità clandestine di dissidenti, gente che rischia davvero la vita propria e della propria famiglia per far trapelare informazioni nella rete cinese?”
La questione – nonostante la netta presa di posizione di Google, della diplomazia statunitense e del Governo Cinese – sembra peraltro in continua evoluzione. Ed il tentativo fallito da parte di Mountain View di incitare le altre aziende del settore a seguire il suo esempio non aiuta a prospettare una conclusione immediata della vicenda.
L’ appello di BigG è rimasto infatti quasi del tutto inascoltato , a parte qualche eccezione: GoDaddy, il più grande Internet domain registrar , avrebbe affermato l’intenzione di ritirarsi dalla Cina a causa delle continue ingerenze governative relative alla gestione della privacy dei suoi utenti (e per alcuni osservatori anche perché i domini.cn erano un business molto poco redditizio), andando comunque ad arricchire le fila delle aziende ICT che si oppongono in un modo o nell’altro alla grande muraglia digitale cinese, come appunto Google: ma anche Facebook e Twitter, che non sono mai entrate in Cina.
Gli osservatori hanno peraltro temuto che gli screzi fra l’azienda statunitense e il governo orientale avessero già conseguenze dirette su tutto Internet: mercoledì al registro DNS cileno si sono accorti che uno dei maggiori DNS root server, l’ I Root Server svedese, dirottava i visitatori che cercavano di accedere ai domini .com YouTube, Twitter e Facebook, verso server in Cina , e che gli utenti si trovavano di fronte agli omologhi cinesi delle piattaforme se non a semplici messaggi di errore: erano entrati di fatto all’interno della Grande Muraglia cinese e dei filtri in essa adottati.
I responsabili cileni hanno dunque inviato una email di servizio agli altri operatori del settore per cercare di capire cosa stesse succedendo. E alcune ipotesi hanno temuto essere un tentativo da parte di Pechino di dirottare il traffico anche fuori ai suoi confini, mentre le parti in causa (dal governo cinese ai gestori del server protagonista, passando per Google) declinano ogni responsabilità e affermano di non sapere a cosa sia dovuto quello che potrebbe essere solo un semplice incidente.
Incidente che dimostra, tuttavia, come un’impostazione dei server DNS possa avere conseguenze anche fuori dallo stato dov’è stata imposta. E come alcune policy di censura in alcuni stati possano causare problemi all’Internet di tutto il mondo.
Claudio Tamburrino