La Cina non si differenzia dagli altri paesi occidentali nell’adottare leggi antiterrorismo che abbiano un impatto sulla tecnologia, che contribuiscano a rendere la Rete uno spazio “sicuro e controllabile”. E, nelle previsioni adottate nel quadro normativo, non si discosta dalla proposte occidentali che ricercano la collaborazione delle aziende per contrastare “una minaccia al genere umano” quale viene definito il terrorismo.
La legge approvata da Pechino nella giornata di ieri, in vigore da gennaio, rinuncia all’obbligo di conservazione dei dati su server locali e alle backdoor che permettano alle autorità di insinuarsi nelle comunicazioni e nelle attività dei cittadini della Rete. La proposta di legge, per come era stata presentata nei mesi scorsi, completa dell’obbligo per le aziende di garantire allo stato una posizione di osservazione provilegiata sulle attività degli utenti, aveva suscitato la presa di posizione di Obama, presidente di uno dei paesi in cui la soluzione delle backdoor è periodicamente accarezzata dalle autorità e probabilmente esplorata al servizio della sicurezza nazionale. La Cina cede dunque su uno dei cardini della propria interpretazione del tecnocontrollo, ed in prima persona, attraverso l’agenzia di stampa di stato Xinhua , accusa gli USA di adottare due pesi e due misure nel confrontarsi con Pechino, poiché si tratta di un paese “che sembra essersi spinto ben oltre, abusando delle backdoor per guadagnarsi il primato in termini di intercettazioni”, “spiando non solo i comuni cittadini statunitensi ma anche importanti leader stranieri”.
La legge cinese, d’altro canto, impone ai fornitori di servizi di comunicazione e di connettività supporto e assistenza alle forze dell’ordine con “interfacce tecniche” e “soluzioni per decifrare” utili nell’opera di prevenzione e indagine in ambito antiterroristico. Una posizione che ricalca quella adottata nel Regno Unito, che ha recentemente avviato la discussione dell’Investigatory Powers Bill, che al pari della legge cinese chiede alle aziende di “adottare misure ragionevoli” per rispondere alle richieste di accesso ai contenuti cifrati eventualmente emesse dalle autorità e autorizzate dalla giustizia. Questo tipo di richieste, sposate da governi di mezzo mondo, creano inevitabilmente attriti con le politiche delle aziende che abbiano adottato sistemi di cifratura end to end e si siano esplicitamente assunte la responsabilità di proteggere le comunicazioni dei propri utenti dalla sorveglianza di stato.
Agli operatori, inoltre, è richiesto di “prevenire la diffusione di informazioni utili al terrorismo e agli estremismi”: nel momento in cui individuino comunicazioni e informazioni che servano cause ritenute ricadere nell’alveo di “terrorismo e estremimo”, i fornitori di servizi dovranno provvedere ad interrompere il canale di comunicazione, a salvare le informazioni notificandole alle autorità , prima della cancellazione definitiva o alla inibizione degli accessi per il pubblico. Non è per ora dato sapere quali contenuti Pechino ritenga ricadano in queste categorie di comunicazioni e contenuti, soprattutto alla luce di ciò che la Cina ritiene indadatto per i propri cittadini : Pechino ha altresì stabilito dei limiti nella diffusione di notizie , in ambito giornalitico e in ambito social, relative ai dettagli delle attività terroristiche. A differenza della collaborazione che hanno sollecitato la Francia e l’Europa, in un regime di autoregolamentazione che probabilmente si plasmerà sulla base del dibattito fra settore pubblico e attori privati, la Cina prevede delle sanzioni per chi non si adegui: da 200mila yuan (poco meno di 30mila euro) a oltre 500mila yuan (70mila euro), a seconda della gravità della mancanza, varranno le multe per gli inadempienti, mentre i diretti responsabili rischieranno altresì fino a 15 giorni di carcere.
“Queste regole si adattano alla necessità di operare per combattere il terrorismo – ha spiegato il portavoce della commissione parlamentare anticrimine locale Li Shouwei – e sono fondamentalmente identiche a quelle che altri paesi del mondo vorrebbero adottare”: la Cina ritiene che “non interferiscano con le attività ordinarie delle aziende interessate”. Negli altri paesi del mondo i colossi dell’IT non hanno esitato a prendere posizione contro queste richieste di collaborazione: riguardo alle soluzioni scelte dalla Cina, vasto mercato inevitabilmente ambito dall’industria della tecnologia, soggetti come Apple, Microsoft e Google, critica al punto di cessare parte delle proprie attività in Cina e in paesi che minaccino la conservazione dei dati su server locali come la Russia , devono ancora pronunciarsi. Nonostante i ritornelli autarchici la Cina probabilmente garantirà un seguito ai rapporti commerciali con il resto del mondo IT.
Gaia Bottà