I dati, anzitutto: secondo le rilevazioni SensorTower, Clubhouse ha raccolto quasi 10 milioni di download nel mese di febbraio, quasi 3 milioni nel mese di marzo e meno di 1 milione nel mese di febbraio. L’app che più ha fatto parlare di sé in questo inizio 2021, insomma, nel giro di un trimestre è praticamente scomparsa dai radar nonostante una base di installazioni decisamente minimale, contando meno di 15 milioni di installazioni e molto probabilmente molti meno utenti attivi sulle stanze.
Il contesto, infine: Facebook ha preannunciato un impegno sul medesimo campo, Telegram ha già creato il proprio simulacro, Twitter ha aperto in queste ore gli Spaces per chi ha più di 600 follower e di simil-Clubhouse ce ne sono a questo punto ormai a bizzeffe quando ancora lo stesso Clubhouse è limitato a piattaforma iOS in attesa di un esordio ufficiale su Android.
La domanda, insomma, si pone: Clubhouse si è arenato troppo presto?
Clubhouse o non Clubhouse?
La domanda è lecita, ma potrebbe essere al tempo stesso fuorviante e potrebbe includere in sé un preconcetto pericoloso per l’analisi di questo tipo di espressione social. Clubhouse, infatti, ha vissuto un improvviso (e non pienamente motivato) exploit che lo ha portato sulla bocca di tutti nel giro di poche settimane, fattore che ha alimentato ulteriore hype e grande esposizione mediatica. L’esperienza di quanti hanno vissuto le stanze in quei giorni, però, non è stata troppo soddisfacente. Non si tratta soltanto di una questione tecnica: i contenuti stessi si sono rivelati al 99% rumore di fondo, presenze autoreferenziali, monologhi privi di contenuto, scevri di forma, deboli per principio.
Un vizio di Clubhouse, oppure un problema di fondo di quella che è una nuova radio senza ossatura e senza polpa? Bisogna tenere presente anche questo scenario, in attesa di capire cosa accadrà.
Anche gli Spaces di Twitter in queste ore non stanno brillando in quanto a gradevolezza e va messo in conto un aspetto ulteriore che ci deriva dall’esperienza: l’ascolto audio è una metodologia di consumo mediatico che porta via molto tempo. La scelta è dunque duplice: vi si dedica anche attenzione (e allora il “costo” in termini di impegno è altissimo), oppure lo si utilizza come rumore di fondo (e allora si è replicato il meccanismo delle radio).
Il concetto che sta dietro Clubhouse è ancora troppo giovane per poterne giudicare le capacità di maturazione, ma in questa fase sarebbe troppo semplice condannare Clubhouse e lasciare agli altri soltanto il potenziale: su questa idea stanno scommettendo tutti i principali social network, dunque evidentemente sono state ravvisate potenzialità in fieri da poter esplodere. E chissà, a questo punto, che non sia proprio la radio a poterne fare le spese.