Le società produttrici di software dovrebbero essere ritenute responsabili per la sicurezza e l’efficacia del loro codice. A sostenerlo è la Commissione Europea, intenzionata ad estendere anche ai software le leggi di protezione dei consumatori in vigore per i manufatti fisici. Ma le case produttrici non ci stanno.
A lanciare la proposta sono state Viviane Reding e Meglena Kuneva, le due Commissarie incaricate rispettivamente dei Sistemi Informativi e della Protezione dei Consumatori a livello comunitario. Dopo aver esaminato le diverse normative esistenti in materia di protezione dei consumatori, le due si sono convinte della necessità di estendere anche ai prodotti e servizi informatici le tutele già esistenti per i beni materiali, che prevedono la responsabilità dei produttori rispetto alla sicurezza ed all’efficacia dei manufatti da essi realizzati.
“Se vogliamo che i consumatori possano sfruttare appieno le potenzialità delle reti digitali per i loro acquisti, dobbiamo dare loro la certezza che i loro diritti fondamentali siano garantiti” ha spiegato Kuneva, che ha poi aggiunto: “Questo richiede la predisposizione di chiare regole di protezione dei consumatori ed il controllo su di esse, secondo gli standard che già esistono per i prodotti fisici”
In particolare, quindi, il documento presentato dalla Commissione prevede l’estensione dei “principi contenuti nelle norme di protezione dei consumatori anche agli accordi di licenza riguardanti beni quali gli antivirus, i videogiochi e altri software consimili”.
Attraverso l’intervento proposto, l’Unione punta a responsabilizzare i produttori di software, e in generale le società che creano servizi digitali, con l’obiettivo ultimo di offrire maggiori possibilità di scelta ai consumatori.
Diametralmente opposta la valutazione della associazione di rappresentanza delle software house/em>, la Business Software Alliance ( BSA ), a giudizio della quale un’eventuale estensione ai beni immateriali della Direttiva Europea sulle Vendite e le Garanzie avrebbe l’effetto di limitare (e non di accrescere) le possibilità di scelta per i consumatori.
BSA è particolarmente critica sulla parte della norma che prevede l’obbligo per i produttori di offrire un termine di garanzia minimo di due anni. “Estendere i termini relativi alle garanzie imporrebbe alle aziende di continuare ad offrire i servizi di update anche al di là dei termini previsti dai contratti” ha detto il responsabile per le Politiche Pubbliche dell’Associazione, Francisco Mingorance. “Sarebbe un po’ come affittare la propria casa per il periodo delle vacanze estive, e poi trovarsi obbligati ad estendere l’affitto per tutti i 23 mesi successivi”.
BSA ha criticato con forza anche l’idea stessa di equiparare i servizi digitali a quelli materiali. “I contenuti digitali non sono uguali ai beni fisici, e non dovrebbero essere sottoposti alle stesse regole che vengono impiegate per i tostapane – ha detto ancora Mingorance – Diversamente da quanto accade per i beni materiali, i produttori di contenuti digitali non sono in grado di prevedere con un adeguato livello di certezza le performance e gli impieghi realizzati successivamente con i loro manufatti”.
A giudizio di BSA, le performance di un software dipenderebbero in modo decisivo dall’ambiente in cui opera e dalle modalità di aggiornamento, nonché dal grado di personalizzazione che esso consente e dalla presenza di eventuali attacchi esterni nei confronti di esso. Ed è per questo che l’equiparazione secca non avrebbe senso.
Ultimo ma non ultimo, sottolineano altri commentatori , l’applicazione del principio di responsabilità oggettiva al campo del software potrebbe limitare la libertà creativa degli sviluppatori , i quali potrebbero finire auto-limitarsi per non rischiare di incorrere in conseguenze non prevedibili in anticipo.
Giovanni Arata