C’è una domanda semplice ed importante che i più illuminati fra i commentatori della rete Internet si pongono di tanto in tanto. La domanda è: quanto tempo è giusto ed utile dedicare alla rete? Come riuscire a trovare il giusto equilibrio fra attività svolte seduti davanti ad un terminale collegato al web e le altre altrettanto necessarie attività sociali e fisiche della nostra vita? Quando – come scriveva molti anni fa un mio vecchio amico da dietro un computer in California – alzarsi dalla sedia ed uscire a zappare l’orto?
Non conosco nessuno, fra quanti si occupano per professione o diletto di Internet come del nuovo paradigma della nostra società, che non si sia almeno una volta posto una domanda simile. Quella di una nuova normalità che tenga conto (come ormai è inevitabile) della rete.
Eppure, nella maggioranza dei casi, la declinazione più frequente di questo nuovo equilibrio è quella estrema della sottolineatura urlata dei grandi rischi da eccesso di rete. O della affermazione aprioristica della rete che rende migliore la nostra vita sempre e comunque. I nostri quotidiani ne sono pieni da anni. Internet come malattia e come pericolo, la bottiglia dell’alcolista senza nemmeno il pudore di nasconderla dietro il divano. Ma anche, di contro, Internet mitizzata e incensata dai media per poi essere, sugli stessi media, ancora una volta e dopo poche pagine, ridotta a pericolosa sindrome da dipendenza capace di rovinare le nostre vite.
È interessante notare come nella rappresentazione dello scenario solo gli estremi vengano compresi: la rete o è fantastica, nell’apologia nota che dedichiamo ad ogni nuova innovazione tecnologica, o è diabolica ed in grado di distruggere le nostre vite in pochi istanti.
Quando qualcuno tenta di ristabilire i corretti chiaroscuri della questione, analizzando pro e contro, cambiamenti epocali indotti dall’uso della rete e pericoli ad essa correlati, invece che essere correttamente citato per il proprio importante contributo, viene immediatamente arruolato nella fila di questo o quello schieramento ed il suo pensiero sezionato e ridotto a macchietta pro o anti qualcosa.
L’ultimo in ordine di tempo finito in questa tela estremista e stato Nicholas Carr il cui più recente articolo sull’Atlantic Monthly è stato molto citato anche sui media italiani. Per il contenuto importante dell’articolo dite voi? No, per il suo titolo, che in italiano suona più o meno cosi: “Google ci sta rendendo stupidi?”. E ringraziate l’incauto titolista per il punto di domanda finale.
In realtà l’articolo non parla di Google e della sua eventuale propensione a incidere negativamente sulle nostre povere menti, ma tratta ampiamente e con numerose citazioni scientifiche il cambio di approccio intellettuale che l’uso della rete sembrerebbe indurre nelle nostre vite. Una questione importante che Carr tratta opportunamente senza grandi coinvolgimenti ideologici ponendosi (e ponendoci) alcune domande importanti: “Come è cambiata la nostra attenzione dopo un decennio di rete? Quanti libri leggiamo? In che maniera scorriamo le notizie ora che le troviamo in rete e non stampate su un foglio di carta?”. Questioni centrali che sarebbe opportuno far uscire dall’ambito asettico degli studi accademici per aumentarne una pubblica consapevolezza.
Mentre gli estremisti della carta stampata scrivono sui grandi quotidiani che Google frigge i nostri cervelli, domande serie ed importanti su cosa succede alle nostre attività intellettuali “dopo Internet” restano senza risposta e non scatenano quella discussione che sarebbe invece assai necessaria.
Quesiti importanti per esempio su quanto tempo sia opportuno dedicare alla rete continuano a non avere risposte autorevoli: navighiamo a vista, certi che qualsiasi informazione al riguardo sarà immediatamente metabolizzata dentro uno dei due estremi dello scenario.
Carr – nel suo recente libro “The Big switch, rewiring the world, from edison to google” – racconta delle analogie fra lo sviluppo della rete internet e quello della corrente elettrica cento anni fa e sottolinea spesso come anche allora la cifra intellettuale che veniva utilizzata per descrivere quella rivoluzione era la medesima di oggi.”L’energia elettrica ci avrebbe guarito dalle malattie, avrebbe consentito di influenzare gli eventi atmosferici, permesso di viaggiare nel tempo” scrivevano gli entusiasti commentatori dell’epoca. Con la corrente si sarebbe perfino mantenuta l’armonia familiare e qualcuno nei primi anni del secolo arrivò ad affermare che Dio era “il grande elettricista”.
Ed è interessante notare anche come General Electric negli anni 20 del secolo scorso spendesse circa 12 milioni di dollari per attività di marketing dedicate a creare una “coscienza elettrica positiva” .
Nulla si crea insomma e gli interessi in campo sono, oggi come allora, considerevoli. Ma la distanza del nostro paese da una utile elaborazione culturale della nuova nascita (per quanti credano a Internet come al sole dell’avvenire) o del lutto (per quanti associano la rete ad ogni sciagura possibile) è ancora assai lontana dall’essere raggiunta.
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