Se credi, come io credo, che Internet abbia fatto molto per te, allora forse questo è il momento di pensare a cosa tu puoi fare per Internet. Perché al di fuori di isterismi e oggettive complessità non ci sono molti dubbi che, dopo le rivelazioni di Edward Snowden, l’intera reputazione della rete Internet, la sua capacità di essere luogo contemporaneamente pubblico e privato della nostra vita, siano state messe a dura prova, quando non del tutto scardinante.
I cinici vi racconteranno che si sapeva già da prima, citeranno una vecchia abusatissima frase del capo di una grande azienda tecnologica americana che oltre un decennio fa diceva che la privacy su Internet è pari a zero (aveva torto allora, continua ad averlo oggi, ma pazienza) mentre gli sciocchi vi racconteranno che se uno non ha nulla da nascondere non ha nemmeno nulla di cui preoccuparsi. Una certa stampa (la grande maggioranza della stampa) proverà a comporre articoli con la storia del poliziotto buono, elencherà innumerevoli casi nei quali il controllo e il data mining hanno evitato sfracelli mentre il politico imbelle, come è accaduto in molti Paesi europei, specie in Italia, di fronte alla gigantesca invasione della privacy dei propri cittadini da parte di uno stato straniero semplicemente se ne resterà in silenzio.
E invece noi? Cosa possiamo fare noi, concretamente, per contrastare il sistema di sorveglianza globale che NSA ed altri soggetti hanno negli anni messo in piedi?
Possiamo fare piccoli gesti molto importanti, postarli su Facebook o sui nostri blog, estenderli ai nostri amici, scriverli sui giornali, raccontarli negli eventi pubblici se e quando sarà possibile. Questi piccoli mattoni sono accomunati dall’essere piccole schegge di resistenza, minuscoli atti di contrapposizione ideologica e etica.
Scegliere di chi fidarsi intanto. Le piattaforme di Rete sono uscite distrutte dalla tempesta NSA ed hanno gravi oggettive responsabilità nei confronti del loro utenti. Dobbiamo immaginare con loro una nuova relazione, basata sulla terzietà della piattaforma rispetto al poliziotto, un intermediazione che si presumeva esistente e che invece nei fatti non c’era. Vedremo nei prossimi mesi se Facebook o Google, se Twitter o il nuovo prossimo servizio che tutti utilizzeremo domani, saranno in grado di schierarsi nettamente, con atti concreti, contro il controllo governativo o se invece accetteranno di esserne parte attiva. Se innalzeranno opportune barriere elettroniche all’occhio invadente del controllore oppure no. Se nulla cambierà, se i nuovi imprenditori si uniranno (come hanno fatto fino ad oggi) al vecchio gendarme, allora sarà tempo di abbandonarli per andare altrove. In questo contesto occorre ammettere che alcuni soggetti non meritano nemmeno questa tardiva ipotesi di redenzione: le aziende del software che secondo i report di Snowden sono più pesantemente compromesse con NSA, alcune delle maggiori aziende software mondiali, dovrebbero essere semplicemente rifiutate per manifesto tradimento.
Dobbiamo condividere informazioni. Bruce Schneiner che in questi mesi si è distinto per essere la mente più lucida nell’analisi politica del disastro mondiale della privacy – lui che è invece un tecnologo a tutto tondo – dice da settimane una cosa molto semplice: abbiamo bisogno di nuovi Edward Snowden. Chi sa parli, chi ha visto cose le racconti, chi ha documenti li renda pubblici. La maggior paranoia di NSA e di Barack Obama (il Presidente USA che a margine della vicenda NSA meriterebbe un biasimo tanto ampio quanto circostanziato) delle ultime settimane è stata capire quante e quali informazioni Snowden abbia portato fuori dal sancta sanctorum degli spioni planetari. Per tentare di arginare questo l’intelligence USA ha accettato di compromettere ulteriormente la propria già modestissima reputazione bloccando spazi aerei, fermando giornalisti dentro aeroporti, martellando computer e sequestrandone altri a cittadini che certo era difficile immaginare come pericolosi terroristi. Ma se la battaglia per la privacy in Rete è oggi una battaglia difficile anche quella del controllo sulla diffusione dei documenti si dimostra esserlo altrettanto e questa certamente è una buona notizia.
Educare alla riservatezza. La cultura della sicurezza ha bisogno di nuove semplificazioni nelle piattaforme. I sistemi di cifratura, che a differenza di quanto sostiene una certa vulgata giornalistica non sono stati craccati da NSA ma, nella maggioranza dei casi, semplicemente aggirati, hanno bisogno di essere implementati dentro la macchina. Tor o SSL sono comunque utili (o oggi ormai quasi necessari) ma non possono rimanere nelle competenze e negli utilizzi dei soli esperti. Se il gendarme ha grandi microfoni per ascoltare le nostre voci noi dovremo iniziare a parlare sottovoce o accendere la radio o utilizzare frasi in codice, come in certi vecchi film sulla DDR degli anni ’60.
Pratiche di massa contro l’osservazione di massa. Perturbazioni software, forma di resistenza elettronica a patto che siano disponibili per tutti. Ma educare alla riservatezza non è soltanto l’abilità nell’utilizzo di uno strumento, è anche e soprattutto un processo culturale: TOR è il risultato, ma il pensiero che lo sorregge è perfino più importante. Ognuno di noi ha il diritto di non essere spiato.
Intorno a questa idea dovrà crescere la Internet dei prossimi anni: se lo sapremo fare, se saremo in grado di raccontarla bene, se non ci adatteremo ad essere i cari cari polli di allevamento, allora Internet continuerà ad avere un senso come lo hanno le piazze delle nostre città. Se tutto questo non sarà possibile allora avremo semplicemente perso tutti e non solo Barack Obama.
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