Roma – La FIMI, la Federazione dell’Industria Musicale Italiana , ha pubblicato lo scorso mese di febbraio i dati sulle vendite di prodotti musicali nel 2002. Secondo questi numeri ufficiali – che i media hanno diffuso molto discretamente – il numero dei CD musicali venduti in Italia nel 2002 è aumentato del 17% passando da 43 a 47 milioni. Buone notizie dunque, buonissime, anche se la stessa FIMI si esibisce in una analisi che sostiene l’esatto contrario. Notizie però, oltre che buone, anche piuttosto strane. Come è noto l’Italia è la patria dei pirati, dei fabbricatori di cd falsi, dell’utilizzo della rete internet per lo scambio di mp3 abusivi. Come si spiegano allora questi numeri positivi?
Secondo Forrester Research solo il 2% degli utenti europei della rete internet che scaricano musica in mp3 continua a comprare musica nei negozi, preferendo masterizzare brani scaricati in rete sui propri computer casalinghi. Per il generale Suppa della Guardia di Finanza “La pirateria intellettuale ha ormai assunto dimensioni tipicamente imprenditoriali, con fatturati miliardari e con una capillare rete distributiva, resa ancora più efficace dell’ausilio di internet, il quale agevola la diffusione del fenomeno della pirateria e favorisce l’anonimato dei contraffattori”.
La Federazione Pirateria Musicale osserva poi che in Italia il fenomeno è – uso il loro aggettivo – “spaventoso”: In Italia il 25 % del mercato è nelle mani dei pirati, al Sud oltre il 40 % dei cd in circolazione è falso e i proventi delle venditi arricchiscono organizzazioni malavitose particolarmente agguerrite con fatturati miliardari. Tra compact disc importati di contrabbando e prodotti “masterizzati” in loco, ogni giorno migliaia di pezzi inondano le strade commercializzati da una capillare rete di rivenditori abusivi. L’industria discografica soffre pesantemente di tale situazione, con oltre 350 miliardi di mancato fatturato, all’anno, in Italia.
Più avanti nello stesso documento si sostiene che la nuova frontiera della pirateria musicale è Internet: “Con l’avvento del formato di compressione MP3, internet e la rete sono diventati il principale nodo di diffusione di musica illegale. Le nuove tecnologie consentono di distribuire e scaricare canzoni in pochi minuti senza aver bisogno di particolari competenze o attrezzature eccessivamente sofisticate. La comparsa in rete di programmi come Napster e affini ha reso il tutto ancora più semplice ed ha consentito una diffusione capillare della pirateria digitale.”
Sono stato costretto a riassumere con queste lunghe citazioni per affermare una cosa, se volete, banale: i conti non tornano. E non tornano per una ragione molto semplice. Il gioco informativo che da tempo viene organizzato sui legami fra Internet e pirateria è il frutto di una ambiguità interessata. Vediamo di capire perchè.
Non starò qui a sottolineare come la Federazione Pirateria Musicale smentisca se stessa quando parla di rete internet quale nuova frontiera della pirateria e nel contempo a un link di distanza presenta dati dai quali risulta che la pirateria in rete pesa per l’1% di tutto il fenomeno. Si tratta di piccoli trucchi ad uso e consumo dei diffusori di veline, così capaci di orientare la pubblica opinione partendo da dati aleatori, che servono allo scopo. No, il punto interessante a me pare un altro. Quello di cercare di negare come la battaglia prossima per la sopravvivenza della industria discografica si stia giocando “altrove”. Altrove rispetto ai legami fra delinquenza organizzata e distribuzione di musica fuori copyright, altrove rispetto ai laboratori clandestini nei bassi napoletani, altrove rispetto al piccolo commercio dell’africano che stende la sua mercanzia illegale sotto i portici del centro.
E’ un argomento scomodo, da mimetizzare con cura. Poichè oggi è assai difficile da parte delle multinazionali della musica dire con chiarezza, nelle proprie dichiarazioni ufficiali e nelle comunicazioni alla stampa, che il nemico numero uno e la propria unica fonte di reddito, da qualche tempo a questa parte, di fatto coincidono. Lo si può pensare, affermare sottovoce fra addetti ai lavori, ci si può attrezzare in tutte le maniere per limitare i danni di una simile evidenza ma non è possibile dirlo con chiarezza. L’ambiguità è tutta qui e rimbalza ben evidente dai dati raccolti. Altro che crimine organizzato, altro che triade cinese o mafia russa: oltre il 50% degli italiani – sono sempre dati della FPM – accede alla musica “piratata” al di fuori di qualsiasi meccanismo di lucro. Il 37% si fa doppiare i cd da amici e parenti, il 16% esegue la medesima operazione in proprio su materiale prestato. E non solo: la percezione del reato da parte degli intervistati – perchè anche solo cantare una canzone durante una festa di compleanno senza pagarne i diritti è un reato – è in questi casi quasi del tutto assente. Qualcuno insegna che se la percezione comune non c’è, allora è come se il reato non esistesse. Mi spiace ma questo di fatto accade oggi. Questo risulta essere il grande guaio nel quale si sono cacciate le major del disco ai tempi di Internet e degli mp3.
Di fronte ad una situazione del genere non c’è in effetti molto da fare. Certo si possono far approvare leggi sempre più stringenti ma nessuno ha il potere di trasformare una stretta di mano in un crimine, nemmeno con l’aiuto di politici compiacenti pronti ad approvare qualsiasi indecorosa normativa. Un po’ come sta accadendo in Italia in questi giorni dove in Commissione Cultura della Camera è stata approvata l’ennesima brutta legge di adeguamento alle normative europee sul copyright, conosciuta con la sigla EUCD . Non potendo arrestare i fruitori di musica (che dal carcere avrebbero difficoltà ad entrare in un negozio di dischi per acquistarne i prodotti) l’industria del disco utilizza le armi che sono rimaste a sua disposizione: fa aumentare di centinaia di volte la tassa sui supporti di registrazione, gravando di un balzello che semplicemente raddoppierà il costo dei supporti (anche di quelli che ciascuno di noi utilizza per fare il backup dei propri dati e che mai vedranno l’ombra di un mp3), rende legali i sistemi di protezione e trasforma in reato il loro studio e il tentativo di elusione degli stessi. Ostacola la ricerca crittografica, ignora i diritti dei consumatori sui prodotti che acquistano, esclude la possibilità di rivendita di un bene regolarmente acquistato. Questo in estrema sintesi è l’EUCD.
Di simili trappole nessuno sui grandi media parla e per averne notizia è necessario sottolineare il grande lavoro di informazione e studio al riguardo fatto in questi mesi dalla Associazione Software Libero o da petizioni online come quella promossa dalla rivista AFdigitale.
Si tratta di mosse legislative coordinate a livello mondiale (non a caso l’EUCD ha molti punti di collegamento con il famigerato Digital Millennium Copyright Act statunitense) che fanno parte di un lavoro sotterraneo di galleggiamento e rendono oggi assai difficile la convivenza fra grande industria multimediale e nuove tecnologie. Che trasformano – nelle menti antistoriche dei suoi ideatori – Internet da formidabile strumento di condivisione e conoscenza in un ambiente malsano da evitare e che vedono i nostri politici compatti, per una volta indipendentemente dal colore politico, ad approvare norme sempre più punitive e incuranti dei diritti degli utenti, in nome di una industria e di un mercato ormai “vecchi dentro” e senza alcuna possibilità di sopravvivenza nel medio periodo.
Perfino i Democratici di Sinistra italiani, con sprezzo del ridicolo dopo aver per mesi presentato mozioni sulla legge finanziaria che sottolineavano l’importanza dell’open source e la necessità di incentivare Internet, la condivisione delle conoscenze e la diffusione delle nuove tecnologie, il 28 febbraio scorso hanno dato l’ok in Commissione Cultura della Camera, all’ennesimo papocchio legislativo sul copyright votando a favore dell’EUCD. Lo scrive Stefano Porro su Quinto Stato sottolineando come la posizione dei DS derivi da una “approfondita” meditazione su questo decreto che “tiene conto della necessità di un aggiornamento quotidiano del diritto d’autore alla luce dei continui progressi tecnologici”.
Siamo, come è noto, il paese delle emergenze senza fine. L’emergenza Internet per l’industria del disco italiana – checchè ne dicano gli interessati – è per ora tutta da verificare, attestata semmai in un 17% di dischi venduti in più nel 2002. Ma cio’ non è ancora sufficiente: si potrà (si potrebbe) sempre guadagnare di più evocando gli spettri di un mercato in crisi per colpa della rete Internet e dei suoi pirati, per colpa degli mp3 e della scarsa moralità di tutti noi, che siamo per definizione brutti e cattivi, anche quando compriamo regolarmente i cd dei nostri cantanti preferiti. Potremmo comprarne certamente di più. Potremmo evitare di prestarli ai nostri amici, potremmo percepire come illegale il farne una copia per ascoltarla in auto così come potremmo smetterla di canticchiare in un luogo pubblico l’ultima canzone sentita alla radio. Che poi l’artista ne subisce un danno.
Eppure nonostante questi indecenti comportamenti ancora non siamo stati arruolati dalla triade cinese, nessuno della mafia russa si è degnato di contattarci e la faccia del pericoloso Assad Ahmad Barakat, hezbollah di stanza in Paraguay dileguatosi dopo l’11 settembre le cui attività terroristiche sono finanziate – secondo la FPM – dalla vendita dei CD pirata, l’abbiamo vista per la prima volta sul sito web degli Industriali della Musica Italiana.
Stando così le cose, fino a quando non si deciderà – con un minimo di onestà – di non fare di tutte le erbe un fascio continuando a confondere volontariamente criminalità organizzata e modalità di circolazione dei contenuti musicali dettate dallo sviluppo tecnologico, noi potremo continuare a dire che, no, tutto questo can can, il gigantesco “al lupo, al lupo” che l’industria del disco impone ai media da qualche anno a questa parte, non è una cosa seria.