Roma – Credo che una delle ragioni del successo dell’informatica e di Internet stia in una constatazione da quattro soldi. Che è la seguente: l’utilizzo della tecnologia ci rende in qualche misura più autonomi. Fino a quando i computer erano singole piccole macchine che facevano delle cose (scrivevano lettere, disegnavano, facevano di conto ecc.) l’autonomia che ne derivava era una autonomia fattuale, costituita di azioni che l’informatica semplificava o consentiva di compiere in maniera nuova. Potevo, per esempio, scrivere un libro senza dover andare dal tipografo. Nel momento in cui i computer diventano collegati fra loro, l’autonomia di ciascuno di noi, in rete con il resto del mondo, diventa improvvisamente maggiore di molti ordini di grandezza e inizia a non riguardare più soltanto ciò che attiene alle cose da fare. Da autonomia dei fatti diventa autonomia dei pensieri.
Concettualmente molti degli stridori che caratterizzano lo sviluppo tecnologico odierno hanno a che fare con questo concetto.
Qualche giorno fa, acquistando su Internet un notebook di una nota azienda americana mi è capitato di leggere fra le condizioni contrattuali questa frase: Si utilizzeranno questo/i prodotto/i in connessione con armi di distruzione di massa, cioè, al fine di applicazioni nucleari, tecnologia per missili o per armi chimiche o biologiche?
Che accidenti di attrezzo sto acquistando se posso anche solo lontanamente utilizzarlo per farci una bomba atomica? E chi può essere tanto stupido da chiedermi di barrare, dopo aver letto una domanda del genere, una casella con un SI’ o con un NO? Viene in mente una frase di Asimov che diceva già molti anni fa: “Ogni sistema d’informazione, qualunque esso sia è estremamente pericoloso. Anche se utilizzato per una cosa futile, puo’ in seguito, essere impiegato per un obiettivo di importanza vitale.”
Sia Asimov che il dipartimento della sicurezza americana che impone ai fabbricanti di PC la ridicola condizione contrattuale sopracitata, formulano in fondo la medesima affermazione che è sotto gli occhi di tutti noi, utilizzatori di reti di computer. Lo strumento che è sotto le tue mani – sembrano dirci – è uno strumento di potere. Senza arrivare alle sue teoriche applicazioni belliche, la rincorsa del mondo reale nei confronti della tecnologia è diventata oggi una costante della nostra vita. I poliziotti rincorrono terroristi e delinquenti vari in rete. Le aziende musicali e cinematografiche inseguono e trascinano in tribunale gli utilizzatori di sistemi di condivisione P2P, i fornitori di connettività tampinano i loro clienti che usano in maniera smodata, non idonea o per loro non sufficientemente remunerativa, il servizio loro offerto.
E’ assai difficile invertire il senso di marcia e scaricare dall’evidenza regalataci dalla tecnologia i suoi utilizzi estremi, non considerati o anche solo poco remunerativi. Eppure da tempo si continua a tentare di farlo. I fornitori di contenuti insistono nell’impossibile lotta per imbrigliare musica e film che gli utenti si scambiano gratuitamente online. I governi vorrebbero limitare l’anonimato, magari tentando, come fecero le autorità americane qualche anno fa, di controllare il mercato dei sistemi di crittografia. Gli Internet provider, scottati dalle decine di applicazioni non volute del broadband (come il file sharing ma anche come la condivisione degli accessi via wi-fi) meditano di mettere un tetto contrattuale al numero di MB scaricabili. Insomma lo strumento, da qualunque parti lo si osservi, scivola dalle mani del teorico manovratore in quello del suo utilizzatore. E lo fa ogni giorno in maniere nuove e rivoluzionarie che nessun istituto di ricerca riesce a prevedere in tempo utile. E’ come se ogni mattina si aprisse la finestra e fuori il panorama fosse totalmente diverso da quello del giorno precedente.
Il grande mercato ha preparato qualche anno fa in Europa il progetto delle reti 3G, la cui formula, che si riteneva vincente e che ha indotto investimenti per milioni di euro, era “mobilità del traffico dati in cambio di soldi” . Tranne poi accorgersi – con l’esplosione della tecnologia wi-fi e con una rivalutazione dell’ecologia del consumo – che la tecnologia spesso ha più di un padrone e non può essere controllata o indirizzata in maniera matematica. E che sparare numeri e previsioni su come sarà il mondo della connettività fra 5 anni è un esercizio divertente ma del tutto cabalistico. Eppure continuiamo a crederci: c’è in giro gente che, sprezzante del ridicolo, continua a prevedere – e ti dice giorno mese ed anno – quando finirà la carta, quando i frigoriferi faranno la spesa, quando Internet sarà questo e quello.
In questo panorama non si sa se sia meglio affidarsi ai profeti tecnologici, secondo i quali il potere dei computer è un valore tout court – e allora, avanti! pane e Pc ai bambini fin dall’asilo – o credere ai pessimisti come Paul Virilio che annuncia che “la velocità è la vecchiaia dl mondo” (L’incidente del futuro, Raffaele Cortina Editore 7,5 euro). Posizioni estreme certo, ma corroborate da una completa assenza di medietà nella elaborazione culturale del nuovo. Una assenza che ha, del resto, una semplice spiegazione. Essere equilibrati oggi nel mondo dello sviluppo tecnologico significa acconsentire ad una idea di passaggio di potere nelle mani di quanti la tecnologia utilizzano. E’ una contingenza che se da un lato è inarrestabile, dall’altro è spesso violentemente antieconomica per il sistema di mercato e sociale che fino ad oggi ha organizzato la nostra vita.
Accettare una tecnologia che passo dopo passo sposta il controllo sulle nostre vite sempre più verso il basso è, da un lato una prospettiva fantastica e anti-orwelliana per eccellenza, dall’altro è una ipotesi che ci sommerge con un numero enorme di nuovi interrogativi. Che fine fa il senso di identità sociale che ha retto le nostre civiltà nei secoli se la tecnologia lo spezzetta e rende le nostre esistenze del tutto autonome da quella di chi ci sta fisicamente vicino? In un panorama del genere, per citare ancora Virilio “la realtà puo’ vacillare fino a cadere nel nulla elettronico”? E il punto interrogativo in fondo alla frase del filosofo francese è mio.