Qualche giorno fa, Stefano Rodotà, ex Garante della Privacy, professore universitario e politico di rilievo nazionale, uno dei punti di riferimento in questo paese per ciò che attiene alle problematiche non solo del diritto alla riservatezza, ma anche a quelle legate alle nuove tecnologie, alla democrazia elettronica e ad Internet in generale, ha pubblicato un lunghissimo articolo su Repubblica (la trascrizione di un suo intervento a un recente convegno veneziano) nel quale fa cenno, come altre volte gli è capitato in passato, alla necessità che Internet si doti di una sorta di propria Costituzione.
Scrive Rodotà:
“La traccia da seguire non è certo quella delle impossibili restaurazioni della sovranità nazionali. Ma un mondo senza centro non equivale a un mondo senza regole, che vanno invece costruite pazientemente per approdare ad una “Costituzione per Internet”. Un traguardo difficile, ma una utopia necessaria in un mondo nel quale l’ apparenza della distribuzione e della dispersione dei poteri non può farci ignorare le leggi ferree che grandi poteri politici ed economici continuano ad imporre a tutti.”
Si tratta ovviamente di un rispettabile punto di vista e il Contrappunti di oggi tutto vuol fare tranne che argomentare su come la Costituzione di Internet sia una utopia davvero non necessaria o sul come la ripetuta sottolineatura – in Italia da anni a questa parte un vero e proprio mantra – del rischio di una “Internet senza regole” sia uno di quei luoghi comuni che ci scatena formidabili sbadigli.
No, il Contrappunti di oggi, prendendo come spunto questo articolo, vorrebbe approfittarne per sottolineare come in questo paese esista una sorta di “debito di umiltà” che la classe politica, quella intellettuale, gli amministratori della cosa pubblica ed i media hanno accumulato in questi anni nei confronti di Internet e dei suoi utilizzatori: un debito che nessuno sembra essere ancora intenzionato a saldare.
Viviamo da sempre un paese almeno in apparenza iper-regolamentato. Non ricordo in questo momento se esista ancora o se qualche ente o amministrazione osi ancora domandare ai cittadini la presentazione del “Certificato di esistenza in vita” (ho controllato, esiste ancora, qui ) il Comune di Oristano, per esempio, meritoriamente consente di compilarselo on line, n.d.a) ma certamente in Italia, anche in materia di nuove tecnologie e con la collaborazione attiva di teorici e intellettuali, è possibile produrre leggi come il recente Decreto Pisanu, un pregevole appoggio burocratico al luogo comune della “Internet sede di tutti i vizi” che rende di fatto complicata e talvolta inattuabile la messa in opera di molti dei nuovi strumenti di accesso alla rete che in ogni altro paese del globo sono considerati normalità. Mi siedo in un bar a Londra, Parigi, New York o Mosca e posso aprire il portatile e consultare la posta. A Roma, no, devo prima – se va bene – firmare un po’ di carte che facciano contento l’ex Ministro.
Il Decreto Pisanu è probabilmente un esempio di miopia tecnologico-politica ma è invece, con assoluta certezza, la rappresentazione di una completa mancanza di umiltà del legislatore per l’interesse comune. L’umiltà di sedersi ad un tavolo cercando di capire accanto ai possibili effetti benefici di un maggior controllo antiterrorismo, quali libertà e possibilità di comunicazione si vanno a limitare con una idea del genere. Possiamo chiedere a Pisanu di firmare un decreto avendo chiaro quali siano gli effetti collaterali di un simile provvedimento? Non solo lo possiamo, ma dovremmo persino pretenderlo ed insieme a questo chiederci come mai regole che non valgono altrove debbano essere invece introdotte in questo paese, in una specie di euforica megalomania.
Dell’umiltà (assente) che avvolge anche il Decreto Pisanu è piena la recente storia legislativa di questo paese. Ogni categoria con una qualche piccola o grande capacità di lobbying è riuscita in questo modo a incidere sulle norme per la rete Internet. A questo proposito è piuttosto divertente trovare un accenno, nella frase finale dell’articolo, ai grandi poteri politici ed economici che vigilano sui nostri sonni. Come potremo salvarci? Perfino i giornalisti, in questo scalcagnato paese, sono riusciti a suo tempo a rimescolare le acque, imponendo una norma per Internet che prevederebbe un direttore responsabile per ogni sito web. Storie ormai vecchie, certo, ma sempre valide per disegnare il contesto generale.
È l’umiltà che manca. Completamente. Stefano Rodotà, che oggi non è più gravato dagli impegni di Garante se la sentirebbe – come qualche commentatore illuminato ha scritto in questi giorni – di confrontarsi in rete su quanto espone in giro per convegni o su organi di stampa? Perché l’idea che esistano teorici delle dinamiche della rete che non usano la rete solleva qualche comprensibile sospetto.
È possibile infiorare i propri interventi di accenni alle reti sociali senza averne mai frequentata una? Possiamo parlare di social software solo per sentito dire? Perché chi ha cose da proporre e dire per Internet non le propone e dice (anche) in rete con gli strumenti della rete? Immagino sarebbe il benvenuto.
Nessuno oggi può concedersi il lusso di minimizzare l’impatto sociale di Internet. Non più, da quando milioni di persone anche in questo paese hanno iniziato a frequentarla quotidianamente, sperimentandone le dinamiche direttamente e non attraverso il filtro fatuo di un giornalismo da quattro soldi che l’ha riempita per troppo tempo di terroristi, pedofili e bombaroli da weekend.
Abbiamo bisogno delle menti migliori per far crescere, assieme a Internet, la democrazia e la libertà di espressione e la privacy in questo paese e nel mondo: ma abbiamo bisogno che siano menti umili, desiderose di conversare, capaci di sedersi nel loro bel posticino alla “periferia della palla” per far valere da lì la grandezza delle proprie intuizioni.
C’è un gran bisogno di una nuova umiltà che sconsigli dal legiferare sulle precedenze automobilistiche agli incroci chi fino a ieri ha utilizzato unicamente il cavallo come mezzo di trasporto. Fosse stato anche il miglior cavaliere del mondo.
Che insomma, con tutta la stima e la benevolenza e la comprensione, andare a cavallo sarà anche bello, ma non è esattamente la stessa cosa.
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