Che cosa c’è che non va nella proposta di accordo fra Google e Verizon che ha riempito le cronache nel corso dell’ultima settimana? Ecco, quello che non va, dal mio punto di vista, al di là delle tante questioni tecnologiche che sottende, è che Google prova a prenderci in giro. I sette punti elencati nella proposta, nata da mesi e mesi di incontri fra il gigante del search e quello della telefonia mobile, sono in buona parte cibo per gli stupidi, artifizi verbali, perifrasi buone per convincere i propri interlocutori. Fin dal titolo del documento: “Una proposta congiunta per una rete aperta”.
Si tratta di una forma di comunicazione che l’industria telefonica conosce perfettamente: pensandoci un attimo, è la modalità standard di comunicazione fra le telco e la propria clientela sui mercati di tutto il pianeta, ed è anche una abitudine di molta della comunicazione pubblicitaria ed aziendale in senso lato. Un mix, perfettamente calibrato da mano esperta, fra deviazioni dell’oggetto d’amore (come direbbe uno psichiatra), sottolineature dell’inutile, mimetismi dietro il particolare.
Un esempio per tutti dentro il documento che Google e Verizon hanno presentato i giorni scorsi: il mercato si sposta velocemente verso il mobile, i dialoghi fra Google e Verizon riguardano da mesi il mercato pubblicitario e dei contenuti su piattaforma mobile, e qual è il primo punto del documento prodotto dopo mille sforzi? Il primo punto è che la rete fissa debba rimanere neutrale. Wow! Un po’ come se si dovesse decidere se vietare o meno la caccia alle tortore e il primo punto dell’accordo fosse che no – su questo saremo irremovibili – ai bufali non si spara. Bella scoperta.
La prima nostra grande delusione verso Google è in fondo questo giocare con gli aggettivi, saltellando allegramente fra rete “neutrale” e “aperta”, accettando definitivamente (e in questo credo che Eric Schmidt, un CEO molto molto lontano da qualsiasi idea di etica hacker, abbia contato molto) di essere come tutti gli altri, cattivi esattamente come gli altri, anche nella relazione con i propri utenti. Di considerare come tollerabile una comunicazione doppia, allusiva, fuorviante e in ultima analisi offensiva: che è poi la regola aurea, da anni, della comunicazione fra grandi aziende e propri bizzosi adepti.
Da molti punti di vista si tratta di una tempesta in un bicchier d’acqua (anche se le precipitose ulteriori e sprezzanti precisazioni di Google, dopo le polemiche scatenate dall’annuncio, sembrerebbero raccontare il contrario) visto che quel documento altro non è che una proposta, nei confronti della quale il regolatore USA – il cui intervento tutti oggi richiedono a gran voce – ha titolo e polso per replicare autonomamente. Ma dentro il bicchier d’acqua si agita comunque un tema, quello della estensione in mobilità delle norme non scritte che hanno fatto grande Internet, che è tutto tranne che scontato.
E la doppiezza di Google e Verizon si estende un po’ anche a questo, con la leggerezza e la noncuranza che i due giganti riservano a noi loro utenti stupidi. Lo scenario attuale prevede una rete fissa neutrale (o presunta tale) e le reti degli operatori mobili (dove sempre più spesso i dati sostituiscono il traffico voce) che sono non neutrali per definizione. I maligni sostengono che questa non neutralità ha prodotto risultati modestissimi che sono sotto gli occhi di tutti; gli ottimisti raccontano che, da qualche tempo in qua, la tecnologia dei terminali consente meraviglie sul traffico dati mobile capaci di rendere ricche le telco al di fuori del loro ruolo di meri trasportatori. La realtà forse se ne sta nel mezzo: il traffico dati è cresciuto nel mobile quando sul mobile ha cominciato a passare la stessa Internet delle linee fisse.
Tutto questo ha generato una biasimevole tempesta di cervelli: in molte teste troppe lampadine si sono accese, perfino in un paese come gli USA, dove le reti mobili sono, con il loro scarso sviluppo e la mancanza di standard, la prova provata di tutto quello che quegli stessi cervelli avrebbero potuto fare e non hanno fatto.
Certo, costi e tecnologie sono differenti e nessuno si aspetta che Verizon o AT&T, Telecom Italia o Vodafone, siano benefattori dell’umanità impegnati a garantirci accesso mobile agli stessi costi delle DSL casalinghe, tanto meno in nome della tutela della economia di scala a libero accesso scatenata dalla net neutrality. Nessuno se lo aspetta e le telco non ne hanno del resto nessuna intenzione. Solo che invece di limitarsi alla loro funzione di ISP mobili (con tutto ciò che ne consegue) cercano di estendere a una fetta sempre più ampia dell’accesso a Internet i privilegi tipici delle proprie reti proprietarie. Fossi in Verizon farei lo stesso (non funzionerà, ma pazienza, lo scopriranno magari a suo tempo pagando l’eventuale errore in moneta sonante), fossi in Google invece, un po’ mi vergognerei.
E a proposito di ottime ragioni per vergognarsi, qualcuno ha ritrovato in Rete questa pubblicità di Google di quattro anni fa, nella quale BigG esaltava la neutralità mettendo in guardia dalle telco cattive. Racconto profetico di un salto mortale inatteso.
Più dei mille rappezzi degli azzeccagarbugli di Google (che ricordano molto la tattica ondivaga adottata dall’azienda in Cina, sempre in bilico fra il vorrei ed il non posso) conta il fatto che Vint Cerf, uno dei padri di Internet, vicepresidente di Google (una carica quasi onorifica, una specie di senatore a vita pieno di medaglie di cartone) abbia saputo dell’accordo a cose fatte per poi commentarlo con un aziendalissimo “forse non è male come sembra”. Più della nostra delusione e dell’amplissimo biasimo da parte di personalità importanti come Lawrence Lessig, conta questo senso di déjà vu che ci assale.
Abbiamo già visto simili salvatori della patria in passato. Non ci piacevano allora e non ci piacciono oggi, anche se siamo stupidi, malfidati, sognatori e certamente lontani dalla comprensione delle complessità che riguarda il futuro delle reti. Non ci piacciono e basta, anche se si chiamano, o forse sarebbe meglio dire “si chiamavano”, Google.
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