Quelli che come me hanno osservato attoniti, anni fa, la nascita dei cosiddetti “portali”, enormi contenitori generalisti, molto in voga sul web di inizio secolo, prima della esplosione della bolla new economy, da qualche tempo a questa parte seguono con malcelata soddisfazione la svolta della Internet attuale verso la propria sedicente versione 2.0.
Quando sentiamo parlare di Web 2.0 – lo dico subito – ci stiamo occupando di una mera convenzione terminologica. Fortunatamente ognuno di noi è ancora libero di interpretare questa definizione come meglio crede, Io per esempio utilizzo sovente “Web 2.0” a mo’ di sberleffo a Tim O Really, editore californiano, che ebbe l’idea di registrare l’utilizzo del termine, poiché tale “parola” era stata coniata nel 2003 nel corso di una conferenza da lui organizzata, guadagnandosi nell’occasione le giuste pernacchie e il compatimento di migliaia di navigatori della rete.
Oppure può essere considerato niente più di una scusa per parlare del web “così-come-doveva-essere” poiché in molte delle definizioni che i teorici del web 2.0 illustrano, con la cerimoniosità che si riserva alle nuove-nuovissime-grandi-idee, non si parla d’altro che di quel web “leggi e scrivi” immaginato più di un decennio fa al Cern di Ginevra. E non è strano che proprio Tim Berners-Lee abbia dichiarato recentemente che tutto il can can sul nuovo-incredibile-rivoluzionario Web 2.0 altro non sia che una riedizione, con corteo di nani e ballerine, di una idea molto vecchia e già ragionevolmente nota:
ll Web 1.0 voleva consentire alle persone di comunicare. Uno spazio interattivo. Credo che il Web 2.0 sia piuttosto una forma di slang, nessuno sa cosa significhi. Se il Web 2.0 per voi sono i blog e i wiki, allora sono persone che si connettono ad altre persone. Ed è questo che il Web fin dall’inizio era pensato per essere
Sia come sia, dagli orridi portali ad oggi parecchia strada sembra essere stata fatta e nonostante le molte false indicazioni (cartelli stradali montati in fretta e furia da quanti pensavano di venderci Internet come si vende la mortadella al mercato), il web sembra aver scelto la direzione da prendere per diventare, finalmente, simile a come era stato pensato.
Così qualche giorno fa davo una occhiata a Vox , il nuovo sistema di social networking di Six Apart e pensavo alle enormi opzioni comunicative e di condivisione che ormai ciascuno di noi ha a disposizione in rete. Vox, come altri ambienti “sociali” assai noti e utilizzati specie in USA, crea una interfaccia di relazione semplicissima e molto potente. Intorno ad una idea di “condivisione” molto ampia possiamo scegliere non solo di aggregare con estrema facilità collegamenti e contenuti nostri ed altrui (immagini da sistemi di sharing, video da YouTube, feed RSS, messaging, ecc) ma anche di stabilire diversi gradi di apertura verso l’esterno del nostro giardino digitale, raggruppando e separando in un unico ambiente ciò che vogliamo sia pubblico da quanto invece decidiamo di riservare ai nostri amici o alle persone più intime. Una architettura dei contenuti, che proprio in funzione di questa sua scalabilità e dei robusti fili che ci collegano alle altre persone, allontana il controllo esterno dei mercanti del tempio e di chiunque altro, consegnando Internet all’utilizzo punto a punto dei suoi cittadini.
Se è vero che la internet 2.0 si è infine votata alla condivisione, al mash up dei contenuti ed alla idea nota del “world of ends”, rimane da capire cosa ne sarà di molti business Internet 1.0 (per non dire talvolta 0.1) ormai posti di fronte alla scelta ferale fra il dedicarsi a questa nuova travolgente deriva partecipatoria o scomparire dall’attenzione quotidiana di milioni di navigatori della rete.
In un contesto di questo tipo di profondo ripensamento sull’utilizzo economico della rete, mentre tutto indica la crescita di un nuovo universo anche nel mondo degli affari (una nuova trasparenza online, l’attenzione alla “coda lunga”, anche semplicemente un differente linguaggio comunicativo nei confronti dei proprio clienti) fanno impressione certe notizie come quelle che ci hanno raggiunto nelle ultime settimane dal Belgio. La strenua battaglia legale degli editori di quel paese prima contro Google News poi contro Microsoft colpevoli di linkare (addirittura!) senza autorizzazione le fonti sul web degli editori stessi, appare, vista dal terrazzo del web 2.0, come tenera e patetica assieme. Bene ha fatto il giudice a imporre il divieto di link. Benissimo hanno fatto gli editori a difendere con i denti le fatiche del proprio lavoro. Rimane da capire a cosa serviranno domani il lavoro ed i preziosi link degli editori belgi quando tutti i loro potenziali lettori saranno migrati altrove.
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