Qualche giorno fa l’organizzazione “Reporters senza Frontiere” ha riportato all’attenzione generale la questione dei rapporti fra grandi aziende tecnologiche occidentali e governo cinese. Che, come è noto, ha da tempo grande allergia nei confronti della libera espressione del pensiero da parte dei propri numerosi cittadini. Lo ha fatto per sottolineare l’esistenza di una sorta di protocollo di intesa fra il regime cinese e una ventina di grandi fornitori di accesso alla rete, una lista nella quale compaiono, tra le altre, le filiali cinesi di Microsoft e Yahoo, che potrebbe avere ulteriori gravi conseguenze sulla libertà di parola nel grande paese asiatico. La Internet Society of China, un organismo paragovernativo vicino al Partito, ha prodotto un protocollo di autoregolamentazione, riferito in special modo ai blogger, secondo il quale i firmatari si impegneranno a “non diffondere messaggi erronei e illegali” su internet e a promuovere l’abolizione dell’anonimato sui blog.
Quello che RSF chiama “la fine dei blog liberi in Cina” è solo l’ultimo passo di una intensa campagna di controllo sui contenuti disponibili all’interno della Internet cinese, gigantesca rete di computer (e secondo mercato Internet mondiale) chiusa da un enorme firewall governativo gestito (si dice) da oltre 30.000 guardiani che controllano il controllabile aiutati da know-how e tecnologiche occidentali. Una grande muraglia che rende molto difficoltosi i rapporti con il resto della Internet mondiale e assai pericolose le manifestazioni dei libero pensiero da quelle parti.
Se da un lato Yahoo è stata qualche mese fa sommersa da critiche da tutta la rete e sottoposta ad una indagine conoscitiva del Senato americano per aver comunicato alle autorità cinesi le generalità di Shi Tao, giornalista e poeta poi condannato a dieci anni di carcere semplicemente per aver inviato alcune mail a colleghi americani (attraverso un proprio account privato di posta fornito da Yahoo) nelle quali si sottolineava il comportamento repressivo del regime nei confronti dell’anniversario di Tienanmen, dall’altro Microsoft ha dichiarato che non richiederà l’identificazione dei blogger che utilizzeranno in Cina la propria piattaforma, disattendendo almeno in parte il protocollo d’intesa firmato.
Comunque stiano le cose, si ripropone oggi la medesima questione che ha interessato spesso negli ultimi anni i rapporti fra grandi aziende tecnologiche legate a Internet e paesi come la Cina nei quali certe minime garanzie di libertà non sono garantite. Il punto di vista dei grandi partner occidentali sulla crescita della Internet cinese è noto ed è basato su frasi fatte del tipo “non possiamo non rispettare le leggi del paese nel quale operiamo” e di discutibili ottimismi sul “first step” di un ingresso tecnologico in paesi a basso tasso di democrazia (vale a dire “meglio poca libertà adesso all’interno di un processo che ne porterà inevitabilmente di più domani, che nessuna libertà”) che è poi la posizione ufficiale espressa mille volte da Google.
Per alcuni si tratta di imperdonabili ingenuità, per altri di piccole bugie interessate, per altri ancora di scelte ragionevoli.
È ovvio che le grandi aziende Internet americane sono al centro di una situazione che crea non pochi imbarazzi. Si tratta di società che nella grande maggioranza dei casi gestiscono “informazioni” e che non possono permettersi il lusso di arrivare in ritardo sulla enorme piazza dell’accesso a Internet in Cina per almeno due ragioni: perché hanno una quotazione borsistica da tener presente e perché se non lo faranno loro qualcun altro nel breve periodo lo farà al loro posto.
Sia come sia, come scrive con qualche ragione Amnesty International sul suo sito Irrepressible.info , la responsabilità della repressione Internet non può essere ascritta solo ai regimi dei paesi che la esercitano (oltre alla Cina, il Vietnam, la Tunisia, L’Arabia Saudita, la Siria e molti altri) ma va estesa anche alle aziende che collaborano a qualsiasi titolo a simili misfatti.
E la foglia di fico dietro la quale Yahoo e Google, Cisco, Microsoft e molti altri si sono nascosti in questi anni è perfino più piccola e rinsecchita di quanto ci si potrebbe aspettare se si considera quanto queste società potrebbero fare per contribuire a quella libera circolazione delle informazioni che è spesso scritta nelle loro commoventi dichiarazioni di intenti aziendali.
Perché, per esempio, invece che firmare protocolli di autoregolamentazione col governo cinese simili aziende non firmano protocolli fra loro che stabiliscano alcune norme minime di comportamento da applicare nei paesi nei quali i cittadini, nel momento in cui maneggiano informazioni mediate da un computer collegato a Internet, rischiano la galera e la censura? Davvero il potere del denaro è così forte? Davvero la concorrenza o l’ansia di arrivare prima di aziende autoctone rende improbabili forme di collaborazione che tutelino interessi generali così significativi?
Nessuno di noi – credo – è più disponibile a tollerare la retorica agiografica e consolatoria delle grandi aziende Internet governate da trentenni in scarpe da ginnastica che vanno al lavoro su vecchi maggioloni scassati se a questa meravigliosa metafora estetica di un mondo che cambia non corrispondono poi comportamenti conseguenti. Dimostrino questi ragazzi che la scommessa di organizzare le informazioni e migliorare il mondo è una scelta certo complicata ma possibile, anche se si è una azienda quotata in borsa con miliardi di dollari da gestire.
Se questo non accadrà (e no, in effetti non sta accadendo) se la ragione aziendale viene prima di quella ideale, se innovare significa ancora una volta come al solito trovare nuove strade per raggranellare denaro e non “provare a cambiare il mondo” allora ne prenderemo atto, come in effetti è sempre accaduto. Ma almeno, per favore, via quelle scarpe da ginnastica sporche e quelle vecchie auto arrugginite. A queste condizioni mettono solo tristezza.
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