Le mappe, quel piccolo reticolo di segni, strade e immagini satellitari che ormai tutti consultiamo sui computer, sui tablet e sui nostri telefoni mobili, sono diventate – come scrive Alexis C. Madrigal su The Atlantic – vere e proprie “interfacce fra il mondo offline e quello online”.
È forse questa la ragione ultima per cui sono oggi tanto importanti nella battaglia sui servizi che le grandi aziende Internet forniscono ai loro utenti. Per i medesimi motivi il passaggio, nell’ultima versione di iOS dalle mappe di Google a quelle che Apple ha organizzato in proprio (quelle che il nostro ottimo Galimberti definisce benevolmente come “non ancora del tutto mature”), ha generato la settimana scorsa una inattesa tragicommedia in tutta la Internet tecnologica mondiale, tanto ampia quanto significativa di questa nuova centralità che la geografia dei luoghi occupa in Rete.
Come Apple ha sperimentato sulla propria pelle, costruire un sistema di mappe che, partendo da zero, possa competere con lo standard esistente, non è uno scherzo, nemmeno per l’azienda tecnologica con la maggior disponibilità economica esistente. Così, nei giorni successivi alla presentazione delle nuove mappe di iOS6 e al di là di questioni più o meno tecniche legate alle differenti caratteristiche fra il nuovi sistema di visualizzazione dell’azienda di Cupertino rispetto a quello di Google, Apple è andata incontro al più vasto e rapido crollo di reputazione da molto tempo a questa parte. Se i piccoli inevitabili infortuni tecnologici del passato (per esempio il famoso antennagate di iPhone) erano, tutto sommato, inciampi minimi molto accentuati dai media e dalla stessa aura di invincibilità che Apple si era costruita attorno, la distanza attuale fra le mappe del nuovo iOS e quelle made in Google presenti sulla precedente versione è oggettivamente significativa.
I motivi di questa debacle dell’azienda perfetta per definizione riguardano – mi pare – due questioni differenti ma inscindibili. La prima attiene alle aspettative di noi utenti che, per lo meno nei confronti dei circoli più esclusivi delle grandissime aziende tecnologiche, tendiamo ormai a sottostimare vigorosamente complessità e architettura. Tutto è semplice nei telefonini che abbiamo in tasca, risultato ultimo di una vasta e progressiva opera di raffinamento: il percorso di liberalizzazione dell’interfaccia dai vincoli della difficoltà d’uso, che li ha resi strumenti adatti a platee sempre più ampie, ha azzerato anche la memoria dell’immenso lavoro che avviene dietro le quinte.
Le mappe satellitari, che Microsoft fra i primi portò sui nostri computer oltre una decina di anni fa, sono oggi forse l’esempio più evidente di come questo rapporto fra informazioni e loro rappresentazione sia complesso e richieda, non solo soldi ed intelligenza, ma anche nel caso di Apple abbisogni di tempo da trascorrere e cultura da sedimentare.
Quelle mappe non sono più, ormai da tempo, semplice rappresentazione cartografica del pianeta visto dall’alto e riunito in una immensa teoria di immagini connesse, quanto invece, sempre più spesso, una biblioteca di luoghi e informazioni che trascendono l’aspetto puramente geografico.
Il secondo aspetto rilevante è tecnologico e riguarda appunto il rapporto fra geografia e altri dati. Come racconta Manik Gupta, responsabile di Google Maps a The Atlantic , lo scopo delle mappe oggi non può che essere quello di trasportare il maggior numero di informazioni dal mondo reale a quello digitale, perché questo che si aspettano gli utenti (e perché, aggiungiamo noi, questo lavoro di geolocalizzazione sposa perfettamente il modello di business di Google). Tutto ciò potrà avvenire solo attraverso una sintesi ragionata ed intelligente fra dati di origini differenti. Una sintesi, non un ribaltamento casuale di tonnellate di informazioni dentro una mappa. Non basterà insomma a Apple acquistare le mappe di Tom Tom, di OpenStreetMap o di Microsoft e sovrapporvi i dati di Yelp o di altri fornitori per ottenerne automaticamente la magia di una rappresentazione accurata del mondo attorno.
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