Sulla sentenza Apple-Samsung , dopo aver letto tutto e il suo contrario nei giorni scorsi, mi parrebbe buona cosa restare il più possibile neutrali. Perché come spesso avviene quando i temi sottoposti ad un tribunale riguardano proprietà intellettuale, opere dell’ingegno, brevetti e licenze d’uso, sul tavolo dei giurati si abbatte una tale mole di nozioni, cultura, informazioni e dati di cui tenere conto che rende complicata qualsiasi decisione. Quando le aziende producono brevetti (e per le aziende tecnologiche produrre brevetti è ormai un lavoro a se stante) alzano uno steccato culturale alla crescita della società di cui loro stesse fanno parte. Tutto ciò accade in maniera in genere lecita, in certi casi abusando dei cavilli di un sistema regolatorio che, specie in certi paesi come gli USA, assume spesso pretese olistiche. Brevettando il brevettabile si ottiene in ogni caso un vantaggio da idee e invenzioni dotate di una qualche originalità.
Poi però quando Mark Zuckerberg cerca di registrare presso gli uffici appositi parole di senso comune come “face” o “book” estende la lunga mano del cinismo commerciale sopra la testa dei cittadini inermi; quando Apple reclama la potestà sugli angoli smussati del proprio telefono si produce in una invasione di campo simile, qualcosa a metà fra il ridicolo e l’imprescindibile, visto che poi trova un tribunale che gli dà ragione.
Alle aziende innovative non fa certamente piacere ma esiste uno spazio intellettuale fra ispirazione e plagio che non può e non dovrebbe essere raggiunto in maniera troppo precisa dalla norma, pena l’applicazione di un freno culturale allo sviluppo della società. Quando anni fa Dyson presentò il proprio aspirapolvere senza sacchetto, una macchina diversissima anche esteticamente da tutti gli aspiratori allora presenti sul mercato, in molti si stupirono della stranezza di quell’oggetto (quell’aspirapolvere costava tra l’altro il doppio rispetto a quelli della concorrenza). Oggi, per una ragione o per l’altra, un numero rilevante degli aspirapolvere presenti nei supermercati sono ispirati (quando non spudoratamente copiati) dal Dyson. Lo stesso discorso estetico lo si potrebbe applicare ai canoni dell’industria automobilistica.
Quando nel 2007 Steve Jobs presentò iPhone non esisteva nulla del genere sul mercato. Nessun dubbio che la grande maggioranza dei telefoni oggi disponibili siano stati ispirati, quando non bassamente copiati, da quell’apparecchio, sia nelle caratteristiche fisiche che in quelle software. Ma al di là di simili intuitive valutazioni la causa Apple-Samsung galleggia nello spazio intellettuale che separa l’ispirazione dal plagio. Il diritto di proteggere il proprio lavoro e monetizzare la propria inventiva da un lato, la possibilità di proseguire quella ispirazione e quella inventiva verso altre direzioni dall’altro.
Occorre a tal proposito come sempre citare anche solo il titolo di un libro di qualche anno fa di Lawrence Lessig. La tesi del testo, intitolato Remix , è quella di una economia ibrida dentro una società read-write . Un ambiente sociale diverso da quello attuale, preso a prestito dalle dinamiche di condivisione della rete, dentro il quale sia possibile riscrivere una scala di valori utili prima alla comunità che non agli interessi delle grandi aziende della società dell’informazione.
Ci sono buone possibilità che in un simile sistema delle idee gli angoli smussati di iPhone escano dalla giurisdizione dei brevetti Apple così come la parola “libro” rifugge già oggi, con grande naturalezza, dagli appetiti di controllo di Facebook. Dentro una società leggi-e-scrivi esiste un tributo ideale molto forte a Dyson per i suoi aspirapolvere o a Steve Jobs per i suoi telefoni che non viene regolato solo da licenze ed accordi economici. Che sono solo una parte del tutto. Nello stesso tempo mentre depenalizziamo per quanto possibile l’utilizzo creativo delle idee dobbiamo anche garantire la prosperità degli inventori e la riprovazione verso chi copia e guadagna dalle idee altrui senza aggiungere valore.
È insomma un mondo complicato, dove una parte del valore economico delle opere dell’ingegno dovrebbe essere istantaneamente convertito in riconoscimento sociale e dove, allo stesso tempo, la condivisione della conoscenza applicata ai più furbi andrebbe trasformata in una nuova forma di delitto delle idee.
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