Potrà sembrare strano ma la prima notizia importante è che la questione Pirate Bay occupava interamente la pagina 5 del Corriere della Sera di sabato scorso, con tanto di rimando e foto in prima pagina. Le cose della rete sono ormai definitivamente le cose del mondo. Non mi riferisco tanto ai 25 milioni di utenti del tracker svedese, una goccia nel mare della popolazione mondiale, quanto alla accettazione ormai chiara della centralità di alcune tematiche di cui discutiamo ormai da oltre un decennio. La circolazione dei contenuti in rete in formato digitale è oggi tema centrale nella società. Punto e a capo.
Seconda questione: la sentenza di condanna della Corte Distrettuale di Stoccolma di venerdì scorso ha i pregi ed i difetti di tutti i pronunciamenti simili che si sono succeduto in questi anni. Si tratta di sentenze che immaginano un controllo della norma sull’evoluzione tecnologica e questo, indipendentemente dal caso specifico, è talvolta flebilmente possibile, quasi sempre invece no. È infatti piuttosto evidente che se l’aspirazione della legge è quella di regolare le pratiche sociali, specie nel caso in cui tali pratiche non fossero note al legislatore del tempo che fu, il risultato finale ha solo due possibili alternative: congelare l’evoluzione sociale o, in alternativa, dichiarare fragoroso fallimento.
Non è un mistero per nessuno che nella logica autoreferente della industria dei contenuti l’ibernazione delle pratiche sociali è un prezzo equo da far pagare ai cittadini in cambio del mantenimento del proprio conto economico. È altresì altrettanto evidente che un simile disegno è normalmente rigettato dalla società stessa che nell’innovazione e nel cambiamento trova la ragione stessa della sua esistenza.
Esiste del resto un percorso già faticosamente iniziato in molte parti del mondo emerso (specie in quelle in cui la attività di lobbing dell’industria multimediale riesce ad essere controllata) ed è quello ovvio e di segno opposto dell’adeguamento della norma alle prassi sociali. Se milioni di individui iniziano a scambiarsi file attraverso Internet le ipotesi praticabili sono solo un paio: etichettare l’intera popolazione come una manica di farabutti o immaginare nuove legislazioni che comprendano simili atteggiamenti dentro una inedita idea di normalità.
Questo significa forse che i detentori dei diritti non debbano più pretendere di essere retribuiti? Ovviamente no: significa che l’intera filiera commerciale che porta musica, film, software, libri e notizie nelle case di tutti necessita di una qualche revisione.
È il segreto di Pulcinella, tutti lo sanno e nessuno lo ammette, poiché è evidente che, almeno inizialmente, una simile “nuova era” passa attraverso un ridimensionamento economico del mercato dei contenuti. In mancanza di una volontà minima di aperta discussione su simili tematiche quello che ci attende in casi come quello di Pirate Bay è una pacata, usuale ed inutile discussione fra sordi.
Da un lato i peana sulla economia dei contenuti che precipita e l’esultanza per le sentenze “con la schiena dritta” dei bravi giudici scandinavi, capaci di dare il giusto peso al ben noto “crimine di link”, dall’altro le usuali considerazioni dei “pirati”: nessuno ci potrà fermare, la rete è libera e tutto il solito bla-bla-bla conosciuto, comprensivo anche della salvifica chiamata in correità di Google, la cui economia del link non è in fondo troppo distante da quella di un tracker bittorrent.
Ed è proprio sul dato della ormai impossibile eliminazione fisica di Google dalle nostre vite che si giocano molte delle logiche di chi oggi immagina nuove piattaforme di condivisione in rete. Anche di quelle differenti da Pirate Bay che ha il limite di crogiolare se stessa in una evidente quanto superflua etica anticopyright il cui risultato finale è quello di complicare lo scenario dei diritti in rete invece che favorirne la normale necessaria evoluzione.
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