Credo di essere stato uno dei pochi ad apprendere da Punto Informatico ciò che stava accadendo negli Stati Uniti l’11 settembre 2001. Ricordo perfettamente che quel pomeriggio, entrando in casa aprii la homapage di Punto e lessi una ultimora per me incomprensibile. Diceva più o meno: “Attentati a New York, la rete in tilt”. Questo messaggio e la successiva immediata constatazione che nulla stava funzionando sui siti web informativi di tutto il mondo, furono il mio primo contatto con gli eventi drammatici di quella giornata che non dimenticheremo.
Quella sera scrissi un pezzo che cercava di dar conto di quanto era accaduto alla rete Internet nella comunicazione dell’emergenza, così come l’avevo vissuta in quel pomeriggio fatto di continui andirivieni fra le immagini delle TV e gli oceani di parole che attraversavano la Internet quasi testuale di quelle ore.
La Radio Svizzera Italiana, che nell’anniversario dell’evento dedica oggi tutta la programmazione ad argomenti correlati agli “Attacchi all’America”, mi ha chiesto qualche settimana fa un commento su come sia diventata la rete dopo l’11 settembre. Ho risposto dicendo che dal 2001 ad oggi Internet si è dotata di nuovi efficaci strumenti per descrivere l’emergenza. Ho risposto anche dicendo che l’11 settembre è stato, in USA come altrove, una scusa per stringere il cordone dei controlli sulla libertà di espressione e di manifestazione del pensiero.
È come se gli eventi mediatici più drammatici degli ultimi anni, quell’11 settembre 2001, il catastrofico tsunami asiatico del dicembre 2004, gli attentati a Londra nel 2005, avessero fatto da punto di svolta alla comprensione dell’esistenza di nuovi strumenti collaborativi su Internet, in grado di cambiare completamente la nostra osservazione degli eventi improvvisi che accadono nel pianeta. Una sottile trama tecnologica che comprende le funzioni foto-video ormai in dotazione in ogni telefono cellulare, la diffusione dei collegamenti internet senza fili, la nascita, avvenuta negli ultimi anni, di strumenti software in grado di aggregare ed indicizzare in tempo reale informazioni di ogni tipo nel momento stesso in cui affluiscono in rete, ha causato una vera e propria rivoluzione nei processi di descrizione dell’emergenza.
Ovunque, in questo istante, avvenga un evento degno di attenzione da parte non solo dei media ma anche dei semplici cittadini, esisterà l’occhio e l’orecchio elettronico di qualcuno in grado di descriverlo. Una volta raccontato e messo su Internet sarà semplicissimo per chiunque seguire questo flusso di dati: attraverso i feed dei blog, usando il tagging di motori di ricerca “live” come Technorati o mediante una semplice ricerca testuale su Flickr o YouTube.
Nessun inviato speciale di nessun grande giornale arriverà più in tempo sul luogo dove sta accadendo “il fatto” per descrivercelo in anteprima. Nessuna grande rete televisiva planetaria avrà più anteprime differenti dal ritrasmettere ciò che i testimoni hanno visto e già descritto ore prima su Internet.
Qualcuno sostiene autorevolmente che esista una sorta di complementarietà informativa nata negli ultimi anni: l’attitudine dei cittadini tecnologici a partecipare alla elaborazione della notizia nell’emergenza. Secondo questo punto di vista i contributi dei testimoni integrano e valorizzano i contenuti giornalistici prodotti dalla stampa professionale. Sempre più spesso i grandi media “usano” i contributi amatoriali e gratuiti dei cittadini nella confezione della propria offerta mediatica a pagamento. Ciò accade, nella gran parte dei casi, su base volontaria, facendo leva su un desiderio un poco demodé di ciascuno di noi di testimoniare comunque ciò che ha visto, meglio se su un medium a grande visibilità.
Il mio punto di vista è che si tratti di una situazione di transizione. Certo i siti web dei grandi quotidiani continueranno a scrivere a caratteri sempre più grandi “mandateci le vostre foto” oppure, “spediteci via mail le vostre testimonianze”, i giornalisti continueranno a monitorare blog e mailing list per carpire (nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di “prelievo senza citazione”) notizie e punti di vista utili all’articolo che stanno scrivendo e questo è, da un certo punto di vista, normale.
Ma non esiste alcuna ragione per cui (come per esempio è accaduto per le prime immagini degli attentati di Londra, caricate dai presenti direttamente su Flickr e da lì finite poi sui grandi media) il testimone di un evento drammatico debba utilizzare un mediatore professionale qualsiasi, per trasmettere al mondo ciò che ha visto. Gli strumenti di social software disponibili da qualche tempo a questa parte aggiungono ogni giorno nuove funzionalità e quello che ieri era patrimonio di qualche geek domani sarà normale utilizzo alla portata di chiunque.
Nuovi strumenti tecnologici sono destinati a disegnare nuovi scenari, non tanto e non solo per vecchie professioni come quella giornalistica, ma anche, e direi soprattutto, per la libera circolazione della informazione e per la libertà di espressione.
Se si osserva lo scenario da quest’ultimo punto di vista, appare abbastanza chiara e certamente dotata di una qualche preveggenza, la scelta di George Bush di promulgare a poche settimane da quel nefasto 11 settembre il Patriot Act, un editto antiterrorismo americano (ma seguito da molte analoghe iniziative legislative nei paesi occidentali) che ha portato meno libertà di stampa, meno privacy e meno libertà di espressione. Come se monitoraggio e controllo fossero le chiavi per salvare il mondo.
Il che, ovviamente, non è.
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