Fabio Metitieri è morto improvvisamente nell’aprile del 2009. Era un giornalista/commentatore molto noto in Rete, Laterza aveva appena pubblicato il suo ultimo libro dal titolo “Il grande inganno del web 2.0”. A quattro anni dalla sua scomparsa la pagina web personale che aveva creato parecchi anni prima è ancora lì senza alcuna modifica, il suo profilo Facebook anche. Solo la voce Wikipedia dà conto della sua morte.
Mi è venuto in mente Fabio, che è stato per anni un accanito frequentatore del mio blog, dove sosteneva la tesi secondo la quale molti dei miei lettori venivano in realtà solo per leggere i suoi commenti, quando ho letto la notizia secondo la quale Google ha previsto la possibilità che ciascuno di noi esprima una sorta di testamento digitale che riguardi le molte cose che quotidianamente mettiamo in Rete. Pensieri, parole, opere e omissioni da gestire in automatico anche dopo la nostra dipartita.
In pratica il sistema ideato da Google, che resta alla larga da ogni accenno funebre (il nome tecnico è Gestione Account Inattivo ), serve a dare istruzioni preventive alla piattaforma su quali siano le nostre volontà in caso di prolungata assenza. Possiamo scegliere di cancellare i nostri dati o di passarne il controllo ad un elenco di nostri contatti fidati. Possiamo ovviamente anche non porci il problema ed ignorarlo tranquillamente.
La persistenza delle nostre tracce digitali dopo di noi è uno di quei temi che affrontiamo spesso con umano desiderio di rimozione. Eppure la memoria digitale delle nostre vite è una forma di ricordo potentissima, strettamente collegata allo sviluppo di Internet, ed ha aspetti di controllo e diffusione molto complicati e di difficile gestione. Si tratta di un tema che riguarda intanto la potestà sulle nostre cose messe online, tracce non cancellabili che spesso la morte sembra oggi sottrarre al normale rendiconto dei diritti e dei doveri della comunità nei confronti dello scomparso. Le gallerie fotografiche di adolescenti o serial killer, che da profili Facebook scivolano suoi giornali e sui siti Web, sono solo uno dei molti possibili esempi.
Prevale oggi in Rete l’equiparazione dei contenuti digitali con quelli che erano un tempo in qualche maniera raggiungibili nei formati analogici. Fotografie e scritti, video e commenti in qualche maniera presenti in Rete è come se perdessero i diritti di protezione a loro connessi nel momento in cui il soggetto che li deteneva viene a mancare. Entrano in una sorta di pubblico dominio allargato nel quale sovente il diritto di cronaca fa valere il proprio peso.
È piuttosto evidente che non può e non deve essere così: nel momento in cui la Rete diventa il luogo principe della manifestazione di sé è necessario prevedere un aumento della tutela dei contenuti personali online. Gli appunti quotidiani vergati su un profilo Facebook non sono l’equivalente di una pubblica manifestazione di pensiero, le foto caricate non sono una mostra fotografica dalla quale sia possibile attingere liberamente: il tratto del loro essere tecnicamente pubblici non fa di loro contenuti nella libera disponibilità di chiunque. Occorrerà sempre di più scindere ciò che è tecnicamente pubblico (anche solo verso un gruppo selezionato di contatti) da ciò che invece è intenzionalmente pubblico, distinzione complicata – mi rendo conto – ma indispensabile. Solo questi ultimi contenuti dovrebbero essere liberamente gestibili.
Di simili temi le legislazioni dovranno iniziare ad occuparsi perché nel panorama complesso dell’enorme potere documentale di Internet il controllo dei contenuti messi in Rete deve restare il più possibile nelle mani di chi ha scelto di caricarli. E pazienza se tutto ciò ostacolerà un po’ il lavoro di Facebook e compagnia. Non è del resto un caso che gli orientamenti della Commissione Europea sul diritto all’oblio non riguardino tanto (come scrivono spesso in Italia gli amanti di una Rete edulcorata) la possibilità di prevedere una Internet ontologica che contenga solo le più recenti verità e cancelli tutto il resto, quanto la possibilità per ciascun cittadino di dominare, esportare e cancellare i propri dati, magari traslocandoli per intero o in parte da una piattaforma all’altra.
Dentro questa idea di personale dominio sulle nostre cose di Rete ha spazio ovviamente anche il tema del testamento digitale e bene ha fatto Google, che è uno dei più grandi serbatoi dei nostri dati, ad iniziare a preoccuparsene.
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