Mentre sui media in Italia si è riusciti a discutere appassionatamente per mesi su chi debba guidare la Commissione di vigilanza della Rai (per poi arrivare ad un fenomenale papocchio degno del miglior Totò) le tecnologie di streaming audio-video in rete fanno passi da gigante e, fra nuovi esperimenti e formidabili fallimenti, mutano definitivamente la nostra idea di “televisione”.
Progetti molto ambiziosi come Joost e BabelGum hanno sostanzialmente fallito nella loro aspirazione di incarnare la nuova essenza della televisione sul web mentre molte attenzioni sono (giustamente) dedicate in questo momento al progetto americano Hulu.com . In attesa di capire se Hulu potrà diventare il prototipo della nuova fruizione TV in rete, va detto che non sembrano essere bastate per Joost e Babelgum le feature di sharing, i feed RSS o i social network pensati attorno alle piattaforme per attirare l’interesse degli utenti. Internet ha con il mezzo televisivo da oltre un decennio un consolidato rapporto di odio-amore. Più di odio che di amore in effetti, e non sembra che in questo caso ci sia stata eccezione.
Esiste una indubitabile contrapposizione fra il medium televisivo e la rete. Il primo è basato sulla continuità, richiede ampi spazi del nostro tempo e non consente altro dio all’infuori di lui, la seconda è strutturalmente costruita sulla segmentazione dei task, sull’accesso asincrono alle informazioni e sull’ampia possibilità di selezione personale dei contenuti. Molte delle aspirazioni di convergenza fra Internet e Tv si sono infrante in questi anni contro questo muro di gomma che prima che tecnologico è neurosensoriale. L’utente Internet, che si è abituato al multitasking leggero della propria presenza in rete, vive con sempre maggiore diffidenza e fastidio la grande richiesta di attenzione univoca che la TV richiede anche nella sua declinazione web.
Se questo è vero, è perfettamente comprensibile come YouTube sia oggi la perfetta forma di compenetrazione dei due mondi. La piattaforma raggruppa piccole parti di contenuto interessante in un luogo nel quale chiunque può andare a recuperarle quando lo ritiene per aggiungerle al proprio palinsesto informativo. YouTube o piattaforme analoghe salvano il grande valore contenutistico delle mondo cine-televisivo (nei pochi minuti di ogni programma dove questo miracolo avviene) lo registrano per mezzo degli utenti e ci consentono di inserirlo nella nostra dieta mediatica digitale nell’unico formato utile, quello sintetizzato dal filtro degli altri utenti. Ed è forse questa una delle ragioni per cui citare YouTube in giudizio per violazione del copyright (come hanno fatto molti network televisivi nel mondo) è una ottima forma di miope autolesionismo.
Se fino a qualche anno fa l’errore classico dei fornitori di contenuti era quello di immaginare la rete come una ennesima piattaforma di broadcasting (si veda al riguardo l’altro fragoroso insuccesso della piattaforma web-tv di Telecom che oggi viene sostanzialmente regalata con l’abbonamento ADSL e che è stata di fatto sostituita dal nuovo progetto Yalp ) oggi l’errore più frequente, ai tempi del web 2.0, sembra essere quello di immaginare che una piattaforma TV possa e debba costruire attorno a sé una rete sociale che sarà poi domani la base del proprio modello di business o anche solo del proprio successo mediatico.
L’aspirazione bella e inattuabile che molta retorica 2.0 ha creato (e che molti consulenti spacciano come salvifica e imprescindibile) è quella secondo la quale qualsiasi mediatore di contenuti o servizi che lo desideri può creare una piattaforma sociale attorno al proprio prodotto nella quale, come per magia, i propri utenti decideranno di partecipare alla grande conversazione con gli altri consumatori degli stessi servizi.
Purtroppo, o per fortuna, le reti sociali non sono sacchetti di patate comprati al mercato e non possono essere spostate con altrettanta facilità o abitate con un tocco di bacchetta magica. Il risultato è che siamo ormai circondati da decine di piattaforme diverse, a margine di qualsiasi contenuto possibile e immaginabile, ognuna con la sua bella community semideserta. E fra queste, anche le nuovo recenti web-Tv dei partiti politici non fanno eccezione.
La tecnologia è matura: oggi piattaforme software leggere come Mogulus o Qik consentono a chiunque lo streaming live anche solo da un telefonino, e l’idea che sul web ciascuno possa essere proprietario di una TV con uno sforzo tecnologico tutto sommato modesto ha fatto breccia anche nel mondo della politica, talmente abituato alla lotta per il controllo dei palinsesti televisivi da trovare entusiasmante l’ipotesi di poter replicare sul web una tale forma di persuasione mediatica. In particolare il Partito Democratico ha mostrato molto interesse per questa discesa in campo sul web tanto dall’aver fatto nascere nel giro di pochi mesi ben due progetti di TV ibrida satellitare-internet. Abbiamo a disposizione quindi la versione veltroniana ( Youdem ) e quella dalemiana ( Red TV ) della TV del Partito Democratico ai tempi di Internet. A destra ovviamente si è rapidamente replicato con la nuova TvdellaLibertà anch’essa a metà fra rete e satellite, fra comunicati di partito e contenuti generati dagli utenti.
Il senso di questi progetti solo il tempo sarà in grado di chiarircelo; se l’unica logica capace di sostenerli sarà quella broadcast non sarà difficile immaginarne lo scarso successo. Nel frattempo, in onore alla frammentazione dei contenuti ed al concetto di coda lunga, sarà domani possibile immaginare ulteriori segmentazioni della offerta televisiva in rete.
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