In una battuta di Groucho Marx (grazie ad un commentatore del mio blog che me l’ha ricordata) c’è una efficace sintesi dell’approccio delle grandi piattaforme di comunicazione Internet alle questioni della libertà di espressione on line. La frase è questa:
“Questi sono i miei principi, e se non ti piacciono…beh ne ho altri”
In questi giorni Twitter è al centro di molte polemiche dopo aver annunciato la sua intenzione di filtrare cinguettii sgraditi a orribili regimi o a governi democraticamente eletti. Utilizzando un inedito e interessante accrocchio geografico i tweet sgraditi saranno cancellati (ma segnalati come tali) nel Paese ai cui governanti non piacciono, saranno invece ugualmente distribuiti nel resto del mondo, consentendo quindi un certo grado di diffusione informativa.
Tutto sommato si tratta della stessa posizione etica tenuta da Google ai tempi delle tensioni con il governo cinese: meglio una piattaforma parzialmente censurata che però funzioni anche nei paesi a basso tasso democratico piuttosto che nessuna piattaforma.
Così nei giorni scorsi a casa Twitter, fra le proteste e gli scioperi degli utenti, è andata in onda l’ennesima replica di un racconto morale elastico e variabile. Società che nascono piccole e scapigliate, dietro il confortevole scudo del Primo Emendamento, che mostrano iniziali aspirazioni alte e commoventi, vergate con toni forti nella mission aziendale, si ritrovano, una volta raggiunto il successo (ed i soldi degli investitori e l’occhio attento degli azionisti), a fare i conti con le miserie della realpolitik.
La prima contestazione che si potrebbe fare a Twitter è una contestazione geografica. Uno dei valori principali della Rete, una delle caratteristiche fondanti che ne hanno consentito la rapidissima crescita ed il grande successo, è stato quello della cancellazione dei confini geografici. Twitter in questi giorni sembrerebbe voler restituire loro un valore. Questa interruzione di continuità vale parzialmente per i traffici commerciali, quasi interamente per il trasporto delle parole. Scardinati i filtri geografici legati all’informazione, l’osservatore curioso, dal suo tinello di Forlimpopoli, potrà decidere di leggere il punto di vista del KKK sull’elezione di Obama, il blog del dissidente birmano, il referto autoptico di Michael Jackson. Informazioni un tempo impossibili da raggiungere sono ad un click di distanza, quelle importantissime così come quelle fatue. Fra noi e loro spesso svariate decine di confini nazionali varcati senza autorizzazione in un istante.
Il sistema connettivo della rete Internet si regge sulla scomparsa delle linee di confine, sulla inedita possibilità di allargare il nostro orizzonte individuale, sulla liceità per chiunque di raggiungere informazioni diverse da quelle comunemente accettate dalla propria comunità, senza doverne rendere conto a nessuno e senza essere sottoposto al filtro paterno degli apparati informativi locali. È questa forse la principale lezione di democrazia che lo sviluppo di Internet ha imposto.
Altro punto: solo l’interesse aziendale può improvvisamente azzerare ogni valutazione morale sulle qualità ed i vizi altrui. Nel momento in cui Twitter dichiara di doversi adattare alle leggi locali, qualsiasi esse siano, accetta di porre sul medesimo piano valuario storiche democrazie e crudelissimi regimi. Tutto questo è tanto ragionevole nell’ottica aziendale quando deprecabile in termini generali. Di più, l’idea che le piattaforme informative possano proclamarsi neutrali nella partita a scacchi della libertà di espressione è una contraddizione in termini.
Twitter, Google o Facebook dovrebbero semplicemente accettare di essere tollerate dalle democrazie e censurate dai regimi: devono considerare quest’ultima eventualità come una evenienza possibile (e perfino auspicabile) del proprio essere piccoli motori di rinnovamento. Lo dovrebbero fare anche per due altre ragioni: per il patto, non esplicito ma molto chiaro, che hanno stipulato con i propri utenti (gli utenti sono lì da molto più tempo dei loro azionisti e senza di loro nessun azionista si sarebbe materializzato) ma anche per ragioni squisitamente tecnologiche che certo conoscono ma che spesso fanno finta di ignorare.
Internet è costruita in maniera tipicamente inadatta ai dittatori: aggira gli ostacoli, trova soluzioni, inventa scorciatoie. Le tecnologie di controllo – checché ne dicano alcuni – restano sempre un passo indietro rispetto a quelle di liberazione, i grandi censori lasceranno sempre una falla dalla quale le informazioni fluiscono. Questa è la storia della Rete, ignorarla per la tutela dei propri interessi aziendali non aiuterà. Perfino quando i regimi in difficoltà spengono le dorsali del traffico dati, come è accaduto in Nord Africa nei mesi scorsi, qualcuno si inventa servizi e percorsi nuovi perché il flusso delle notizie resti attivo. Il mondo dopo Internet è un mondo più libero di quello precedente.
Il male minore che Twitter ci ha raccontato, in maniera meritoriamente trasparente in questi giorni, è una scelta pragmatica e poco coraggiosa. Un aggiustamento che offende quanti in questi anni hanno sposato il luogo comune traballante delle piattaforme sociali americane elette a presidi di opposizione alle dittature planetarie. La realtà è invece più cruda e meno teatrale: sono le persone ad opporsi come possono alle dittature, quasi sempre le medesime persone che le subiscono direttamente. E lo fanno spesso correndo dei rischi, con gli strumenti tecnologici di cui dispongono. In alcuni casi, sciaguratamente, questi strumenti non collaborano come avrebbero potuto.
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