Kim Dotcom è stato arrestato qualche giorno fa dentro il suo bunker casalingo in Nuova Zelanda. L’imponente, tamarrissimo, cittadino tedesco, proprietario e mente del cyberlocker Megaupload sembra un personaggio prelevato a forza da un gangster movie contemporaneo. Una biografia molto varia, dalle condanne giovanili per furti di carte di credito, a quelle per insider trading, e poi belle donne, aerei privati, soggiorni in galera, auto di lusso, abiti improbabili, fucili.
Non si è fatto mancare nulla Dotcom in questi anni, compreso l’acquisto per 25 milioni di dollari di una delle più belle residenze della Nuova Zelanda nella cui panic room le autorità lo hanno arrestato un paio di giorni fa su richiesta di un giudice della Virginia, abbracciato – si dice – al proprio fucile scarico. Pare che a suo tempo le autorità di Aukland avessero deciso di ostacolare l’acquisto dell’immobile a causa del passato non esattamente limpido di Mr. Megaupload, poi però la transazione è avvenuta ugualmente, non prima dell’acquisto da parte di Kim di 8 milioni di buoni del tesoro neozelandesi e di una generosa donazione al fondo per le vittime del terremoto.
Tutto questo cappello biografico per dire che, fra le poche cose difficili anche solo da immaginare dopo la chiusura di Megaupload, c’è la santificazione di Kim Dotcom a eroe dei diritti digitali dei cittadini della rete Internet mondiale. E se il suo arresto certamente solleva qualche dubbio giurisdizionale fra paesi lontani alle prese con i reati immateriali del mondo digitale e suggerisce qualche relazione temporale con l’ampia protesta contro il SOPA che ne ha scongiurato l’approvazione, di sicuro gli attacchi DOS contro i siti web di RIAA, Universal Music e Dipartimento di Giustizia USA che il gruppo Anonymous ha scatenato come reazione alla chiusura di Megaupload sono l’ennesima dimostrazione di come certe proteste telematiche assomiglino al riflesso automatico di gente poco incline al ragionamento. Da segnalare a tal proposito anche il comunicato del Partito Pirata svedese secondo il quale Megaupload rimuoveva regolarmente i contenuti sotto copyright.
La partita per una proficua gestione dei diritti digitali in Rete ha oggi due grandi oppositori: da una parte l’industria multimediale che lotta per salvaguardare le proprie prerogative di controllo, dall’altra gli utopisti del tutto gratis per tutti. I primi applicano categorie del secolo scorso ad un mondo che nel frattempo è franato sotto i loro piedi, i secondi, se va bene osservano il mondo come un enorme Lego semplificato, se va male sono solo interessati ad esaudire i propri poco edificanti interessi ricreativi o politici.
Così oggi la prima barra da mantenere dritta è quella complicata dell’analisi del lucro. Il lucro è il discrimine principale fra le battaglie digitali che vale la pena combattere e quelle che invece possiamo lasciare al loro destino. Megaupload, come buona parte dei cyberlocker e come altri servizi di storage web tipo Rapidshare , sono servizi chiaramente commerciali. A differenza delle piattaforme di sharing P2P o dei tracker torrent, sistemi che intermediano contenuti residenti a casa degli utenti della rete, sono veri e propri strumenti di pubblicazione (i primi) e di archiviazione (i secondi), con la variante non trascurabile di essere liberamente accessibili da chiunque (meglio se a pagamento). Che simili business siano i primi ad entrare in rotta di collisione con il mondo dell’industria dell’intrattenimento, desiderosa di trasformare tutto in rissa, è persino ovvio immaginarlo.
Nell’attesa di una ristrutturazione dei diritti d’autore che è sempre più necessaria ma che pochissimi fra i tanti soggetti deputati al cambiamento vogliono, avremmo poi bisogno di dedicare un occhio curioso al mondo che ci circonda. Per farlo dobbiamo rivolgerci più al valore creato per la comunità che non alla mera applicazione della norma. Per esempio non c’è dubbio che Youtube sia anch’esso, come la creatura di Kim Dotcom, pieno di contenuti sotto copyright caricati dagli utenti e che da tale piattaforma Google ricavi introiti anche significativi. Tuttavia, a differenza di Megaupload, Youtube ha saputo immaginare una mediazione fra il vecchio che domina i trattati ed il nuovo che riempie le nostre menti. Da un lato accordi con i detentori dei diritti, limitazione degli eccessi e gestione tecnica senza esagerazioni (il limite dei 15 minuti/video per i nuovi iscritti, ad esempio, limite che sparisce in fretta dopo qualche upload ma che è utile per “filtrare” gli account fantasma che nascono solo per caricare un film o due), dall’altro grande libertà di azione per gli utenti e controlli tutto sommato leggeri. Il risultato è che oggi Youtube è diventata una insostituibile memoria storica della comunità: una risorsa che è di tutti, alla quale sarebbe folle rinunciare. Inoltre è diventata, senza nemmeno accorgersene, una nuova modalità di fruizione televisiva coi tempi del web. E molte altre cose che prima non c’erano.
Allo stesso modo molti di quanti condividono in Rete i contenuti dei propri hard disk coi sistemi di file sharing sono davvero, in mille occasioni diverse, gli amanuensi del nostro tempo: assolvono una funzione sociale inedita e necessaria. Simili piattaforme hanno indotto un ruolo di archiviazione e memoria che i cittadini della Rete hanno spontaneamente riservato a se stessi, creando un fenomeno di una ampiezza ed efficienza tali che nessuna major, nessuna biblioteca e nessuna istituzione pubblica avrebbe potuto anche solo immaginare. L’occhio curioso di chi osserva Internet ci dice che questa nuova moltiplicazione digitale è un valore documentale per tutta la società del quale non avrebbe senso privarci anche se, magari in un numero non indifferente di casi, un simile ecosistema viola in maniera più o meno palese le normative attuali sui diritti di copia e riproduzione.
Fra le prevedibili rigidità dell’industria e le sciocche azioni dimostrative dei ragazzini di Anonymous esiste insomma una sorta di perimetro intermedio dove abitiamo in tanti e dentro il quale le cose gradualmente cambiano, per esempio con l’opposizione ragionata e ferma ad accelerazioni di legge come il SOPA. Siamo in attesa di un ambiente digitale legale e condiviso dove le norme siano nell’interesse della maggioranza e dove l’innovazione vada il più possibile governata e non repressa. In un simile luogo non sarà autoritario immaginare che, per gente come Kim Schmitz, detto Kim Dotcom, per un certo periodo autonominatosi “Sua altezza reale Re Kimble, governatore di Kimpire”, non sia previsto alcun pranzo di gala.
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