Roma – Il mondo è complicato. Forse per questa ragione qualche giorno fa, quando ho letto la notizia dell’ostracismo francese nei confronti dei DRM di Apple, Microsoft ed altri produttori, colpevoli di non aver previsto una forma di interoperabilità fra i loro sistemi di gestione elettronica dei diritti musicali, così che gli utenti possano avvalersi indifferentemente di uno o dell’altro, ho pensato che c’era qualcosa che strideva.
Sì perché la decisione francese, una volta sottolineatane la prevista connotazione sciovinista, ha tutte le caratteristiche che ci attendiamo da una decisione illuminata: lo Stato che sottolinea i diritti diffusi e la loro priorità su quelli particolari degli attori del mercato. Per non dire della attenzione alle tematiche così contemporanee legate alla tecnologie, tutte cose che – per dirla francamente – da queste parti ce le sogniamo e ce le sogneremo ancora per un bel po’.
Eppure c’è qualcosa che non va in questa decisione che potrebbe portare alla chiusura dell’iTunes Music Store francese. E per capire cosa c’è che non va sono costretto a ritornare ad una faccenda che sarebbe bene invece ricordare sempre quando si ragiona sulle dinamiche del mercato digitale della musica in rete. La storia cui mi riferisco è quella del primo lettore mp3 messo in vendita alla fine degli anni 90. Si chiamava Diamond Rio e credo vada a tutti gli effetti considerato come l’avo dell’iPod e di tutti gli altri device portatili che oggi, anche in Italia, un adolescente su due porta con sé.
Correva il 1998 quando la lobby dei discografici americani, la RIAA, presentò una ingiunzione chiedendo ad una corte di vietare la messa in vendita del Diamond Rio 300. Trentadue mega di ram, un case, un software e un paio di cuffie per ascoltare in movimento circa 60 minuti di musica in mp3. Ricopio dalle cronache dell’epoca il parere di Hilary Rosen, indimenticata presidentessa della RIAA, sull’infernale aggeggio:
“Noi dubitiamo sinceramente che esista un mercato per simili riproduttori portatili mp3 che non sia quello dei file illegali scaricati da Internet”.
Certo i discografici contendono alla grande industria cinematografica il primato per ciò che attiene all’allergia pruriginosa ad ogni innovazione tecnologica che minacci anche solo lontanamente i loro formidabili introiti, ma quello che questa vecchia dichiarazione di Rosen ci dovrebbe ricordare oggi è che se la musica prima di una industria è, come è sempre stato, qualcosa di altro e superiore, una entità che ognuno di noi collega ad una idea di comunicazione e scambio, alla espressione di sé, quando non (addirittura) all’arte, allora è evidente che, oggi come allora, continua ad esserci qualcosa che non va.
All’interno di questa contrapposizione fra industria e sentimento che certo noi utenti della musica non abbiamo voluto, la domanda da porsi, alla luce della recente decisione del parlamento francese, è genericamente questa: chi incide realmente sul cambiamento mediato dalla tecnologia della nostra fruizione musicale? Chi la rende migliore? Quale utente verrà beneficato dalle imposizioni sui DRM applicate, quasi per imposizione divina, da quel grande ordinatore che è lo Stato?
Dico questo perché l’intreccio tecnologico-economico che, per esempio, ruota attorno alle creature Apple dell’hardware (iPod), del software (iTunes), della rete (iTunes Music Store) e l’industria discografica, è infinitamente più complesso di quanto non potrebbe sembrare. Lo ha scritto molto lucidamente Luca De Biase sul suo blog qualche giorno fa. Apple non vende solo musica, ma collega, come nessuno fino ad oggi è riuscito a fare, un prodotto ad un servizio (e forse maggiormente si appresta a farlo in futuro). Ma non solo: facendo ciò innova il mercato, traina una idea stessa di compatibilità fra industria e fruizione musicale che le major del disco hanno minuziosamente scardinato nel corso dell’ultimo decennio, in una miopia autolesionista che ha eguali solo in certi film dell’ispettore Clouseau.
Non è quindi infondato pensare che alcune decisioni, idealmente molto corrette, come quella di favorire genericamente l’interesse dell’utente imponendo la interoperabilità fra i vari sistemi chiusi di gestione dei diritti musicali, possano in alcuni casi non essere – per così dire – troppo “utili alla causa”, finendo per favorire i medesimi soggetti che si voleva invece regolamentare.
Non è un mistero che la grande industria discografica stia da tempo spingendo perchè Apple aumenti i prezzi dei propri download musicali, così come tutti sanno che FairPlay, il sistema di gestione dei diritti di Apple, sia stato il primo DRM che teneva in conto non solo le esigenze di tutela del copyright ma anche quelle di un decente utilizzo da parte dell’utente dei brani musicali legittimamente acquistati.
E del resto tutti, ma proprio tutti sanno oggi che il contesto della distribuzione musicale sta cambiando molto velocemente. Scriveva giusto ieri Gabriele Ferraris, il critico musicale de La Stampa nella sua rubrica settimanale su Tuttolibri: “Ogni settimana al momento di scrivere queste righe mi assale un senso di inutilità: parlo di un prodotto che nessuno ormai compera. E la sorte del supporto musicale mi pare segnata. I ragazzi non acquistano più cd e direi -a questo punto – indipendentemente dal prezzo: hanno perso l’abitudine, semplicemente.”
Per queste ragioni è importante che paesi come la Francia (sperando che molti altri seguano a ruota) si pongano “adesso” il problema della distribuzione digitale della musica. Per le stesse ragioni, è importante comprendere chiaramente quali siano gli schieramenti in campo: chi guida l’innovazione e chi invece la osteggia, chi rende la musica fruibile ed economica e chi vorrebbe invece riportarci all’era del grammofono per rinverdire vecchi fasti. In questo senso la decisione francese può essere forse archiviata come un errore in buona fede, mentre il promemoria per la prossima volta potrebbe essere: se si ha a cuore la dignità della musica si veda alla voce “intermediari”. Perché chi fa “catenaccio” ed è allergico al nuovo, abita da quelle parti.
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