Molte ironie ha scatenato in rete qualche settimana fa l’affermazione di Carlo De Benedetti sulle proprie nipoti affezionate utilizzatrici di iTunes Music Store. Le sue cinque nipotine – ha raccontato il presidente del Gruppo Editoriale Espresso durante un incontro con gli ex allievi del Politecnico di Milano – hanno acquistato a 99 centesimi nel negozio musicale di Apple oltre un migliaio di canzoni. Per quale ragione, si chiede l’ingegnere, lo stesso non dovrebbe accadere per i giornali, alla disperata ricerca di un nuovo modello di business per la propria presenza sul Web?
Non occorre interpellare particolari esperti per comprendere che l’ambiente economico di iTunes non solo ha qualche difficoltà ad essere adattato al mondo editoriale ma ha grandi difficoltà ad essere replicato perfino nello stesso mondo della distribuzione musicale e cinematografica, visto che si basa su particolari, complicate sinergie fra i contenuti distribuiti e la vendita dei device destinati alla loro riproduzione.
Volendo lo stesso applicarsi in un simile tentativo, è piuttosto evidente che le news sono un bene fortemente deperibile, i film lo sono un po’ meno (anche per questo non è un caso che i modelli distributivi per le pellicole sono discretamente orientati verso il pay-per-view piuttosto che verso il pay-per-download) e la musica invece, nella grande maggioranza dei casi, lo è pochissimo.
Si tratta di una differenza qualitativa di grande importanza: la canzone acquistata dalla nipotina potrà essere ascoltata centinaia di volte negli anni, un articolo di Repubblica.it, nella grande maggioranza dei casi, volerà via dietro le nostre spalle cinque minuti dopo essere stato letto.
Esiste poi una questione centrale che viene costantemente dimenticata – forse sarebbe meglio dire “rimossa” – nelle molteplici recenti analisi degli editori di tutto il mondo che da mesi si domandano come sostituire il modello basato sulla pubblicità con un qualsiasi modello a pagamento.
Lo avete notato? Nessuno nelle proprie analisi cita mai l’architettura della Rete. Alla domanda semplice semplice: “L’architettura della rete Internet consente di impedire una ampia circolazione fra pari dei contenuti musicali?” le major del disco hanno scelto per un decennio di non rispondere, proponendo come alternativa a una seria analisi del quesito, una strategia basata sulla repressione dei comportamenti illegali e su una offerta commerciale basata sulla convinzione di essere loro stessi gestori unici del mercato distributivo, quando già da un po’ il mercato distributivo faceva tranquillamente a meno di loro.
Oggi la domanda da porre umilmente a Rupert Murdoch, ad Associated Press e ai tanti editori al traino della nuova idea dura e pura delle news online a pagamento per tutti, resta sempre la medesima: “L’architettura della rete vi consente di impedire una ampia circolazione fra pari dei vostri contenuti?”.
La risposta è nota. Eppure ciò a cui stiamo oggi assistendo è l’incredibile replica delle scelte di campo delle case discografiche di un decennio fa: la riproposizione di quello svagato fischiettare in risposta ad una domanda tanto centrale.
Se questo non bastasse le notizie, che hanno nel loro insieme una centralità democratica incommensurabilmente superiore a quella di una canzonetta, valgono invece molto meno di un MP3 nel momento in cui si immagina come riuscire a trasformarle in denaro. Valgono meno per molte ragioni che sarebbe ora lungo elencare, ma proprio in virtù della loro importanza nelle dinamiche delle moderne democrazie è oggi importante preoccuparsi dei modelli di business che le sostengono, perchè un modello economico in grado di sostenere l’informazione in Rete è una garanzia per tutti i cittadini nessuno escluso, mentre l’harakiri delle major del disco è solo un fenomeno biologico interessante da osservare (oltre che un serio problema per gli addetti ai lavori lasciati a casa dalla chiusura dei negozi di dischi).
Allo stato attuale nessuno sa come rendere profittevoli le aziende editoriali in questo periodo di grande crisi. È tuttavia piuttosto chiaro che la grave debacle della carta, fatta di imprese editoriali con centinaia di dipendenti, grandi costi, finanziamenti pubblici, inserzionisti invadenti ecc, ha finito per condizionare l’online, mescolando due contesti che fino a ieri erano tenuti dagli stessi editori artatamente distanti. Se l’idea è quella di sostenere ciclopiche imprese in caduta libera con ipotetici proventi dal Web, scaricando sui nuovi clienti in Rete il fardello delle copie non vendute nelle edicole, allora tanto vale chiudere bottega fin da subito. Semplicemente non funzionerà.
Meglio sarebbe concentrarsi sul Web, avendo fiducia per capire che comunque il futuro passerà da lì (e che se ancora gli inserzionisti non lo capiscono lo capiranno poi). La boutade delle nipotine di De Benedetti resta una boutade, i micropagamenti ai quali con ogni probabilità l’Ingegnere si riferisce sono altra cosa, di ordini di grandezza cento volte inferiore a quelli di una canzone su iTunes, e a differenza degli mp3 delle figliole, per le news hanno ottime possibilità di non funzionare.
Il modello di riferimento per Internet resta probabilmente quello basato sulla pubblicità che purtroppo ha oggi il chiaro limite di non essere in grado di sostenere grandi costi editoriali: anche se domani gli editori decidessero di tagliare i propri rami secchi, limitandosi ad una offerta Internet, i denari incassati con la pubblicità probabilmente non riuscirebbero a pagare l’informazione di alto livello alla quale siamo stati negli ultimi decenni (talvolta) abituati. Per gli amanti del bicchiere mezzo pieno va detto che una riduzione quantitativa forte del mercato editoriale potrebbe selezionare per una volta anche in base a criteri qualitativi una informazione che oggi è da questo punto di vista tendenzialmente livellata verso il basso.
L’architettura di Internet chiede agli editori dei giornali quello che negli ultimi anni ha chiesto a molti altri mediatori di contenuti. Siete disposti a continuare il vostro business da queste parti pagando il prezzo di una riduzione dei vostri introiti per utente? Rispondere affermativamente a questa difficile domanda è la sola maniera per presentarsi domani nel consesso rispettabile ed ammirato dei mercanti di notizie. Quelli bravi e appassionati di cui i cittadini si fidano, in grado di sostenere con il proprio lavoro giornalistico le nostre amate democrazie. Per tutti gli altri, incapaci al di là delle parole di adattarsi alla perdita della propria rendita di posizione legata allo sviluppo tecnologico, la fine sarà probabilmente quella mille volte citata del telegrafista che maledice l’invenzione del telefono.
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