Roma – Grande eco ha avuto sulla stampa nei giorni scorsi la presentazione del laptop da 100 dollari che Nicholas Negroponte ha mostrato in anteprima, alla presenza del segretario dell’ONU Kofi Annan, durante l’incontro di Tunisi sulla Società dell’Informazione. Non poteva essere diversamente: il progetto un laptop per i paesi poveri, denominato “One laptop per child (OLPC)” (computer pensati per essere distribuiti ai bambini in età scolare, dotati di wifi, software open-source e perfino di una manovella per la carica manuale della batteria) è prima di tutto una operazione mediatica, confezionata anche ad uso e consumo dei mezzi di informazione. La convinzione, molto americana, della informatizzazione del pianeta come strada maestra per il riscatto dei popoli.
Se anche la scommessa di costruire un computer dai costi molto bassi dovesse riuscire (nonostante gli sforzi progettuali, i costi effettivi di produzione saranno strettamente legati al numero di macchine che verranno ordinate) l’iniziativa “un laptop per ogni bimbo” nasce – mi spiace dirlo – con ottime possibilità di dimostrarsi un fallimento. Dietro la volontà autentica della lotta al digital divide e per il riscatto delle popolazioni del sud del mondo attraverso le tecnologie, si nasconde una operazione che i commentatori più caustici hanno bollato come “Media Lab Vaporware”. Il piatto forte che il Media Lab del MIT ci serve ciclicamente, riscaldato a puntino, da almeno un decennio: chiacchere ed idee fulminanti con poche o nessuna applicazione pratica.
Quali sono i punti deboli (alcuni francamente debolissimi) del progetto di Negroponte? Sono moltissimi, chi volesse trovarne un elenco completo ed accurato lo può fare leggendo questo splendido post di Lee Felsenstein, il padre dei computer portatili, sul blog del Fonly Institute: provo ad elencarne alcuni.
Il problema fondamentale è un classico problema americano. Sembra che nessuno fra gli organizzatori del progetto si sia posto una domanda fondamentale: chi userà questi laptop? Che tipo di esigenze avranno i bambini ai quali verranno dati in mano? Che tipo di studenti saranno? Nessuno studio sociologico e sul campo è stato fatto precedere alla realizzazione delle macchinette verdi. La presunzione è che esse vadano bene per chiunque a qualsiasi latitudine: che ciò che è buono per il re debba esserlo anche per la regina. Una tipica annosa questione culturale americana: si esporta un modello e basta, senza farsi troppe domande.
Esistono poi irrisolte questioni pedagogiche che, per una volta, accomunano i bambini e gli adolescenti di tutto il pianeta, indipendentemente dal reddito e dalla latitudine. Non esiste alcuna certezza sulla utilità intriseca dell’avvicinare gli adolescenti ai computer per favorire il loro sviluppo psico-attitudinale. Le teorie di Seymour Papert che sono alla base di questa iniziativa (non a caso Papert, che è uno dei padri della intelligenza artificiale, lavora al MIT e fa parte del progetto) sono a tutt’oggi solo teorie, senza alcuna validazione scientifica e sono sempre più spesso oggetto di contestazione e dubbi da parte del mondo educativo, mano a mano che i computer si diffondono nelle scuole. Come scrive giustamente Felsenstein: “In genere i bambini non se ne vanno fuori a giocare con il loro laptop sotto il braccio” .
Di problemi tecnici legati all’hardware ed al software ce ne sono poi quanti ne volete. L’idea tecnologicamente evoluta della “internet cloud” che dovrebbe coprire le vaste pianure africane o altre aree non cablate dei paesi in via di sviluppo (per usare un eufemismo), risolvendo il collegamento del computer alla rete, è pura fantascienza. In nazioni senza infrastruttura di rete e spessissimo anche senza elettricità si pensa di distribuire laptop che galleggiano dentro una rete mesh nella quale ogni singolo device riceve e trasmette i pacchetti da e verso quelli limitrofi fino ad una ipotetica dorsale internet. L’ipotesi tecnologica si commenta da sola; una architettura del genere presume che ci siano brevi distanze fra moltissimi computer (in genere in Africa i villaggi distano dalle scuole decine di chilometri) e che questi siano sostanzialmente sempre accesi perché la rete sia attiva. Qualcuno dovrebbe domandare a Negroponte: “Chi girerà la manovella durante la notte ed il giorno per tenere Internet accesa?”
Esistono poi robuste motivazioni economiche che candidano anch’esse un simile progetto al fallimento: intanto i paesi interessati dovranno acquistare i laptop per distribuirli gratuitamente agli studenti (l’idea molto romantica che i bambini possano portare a casa la sera il “loro” portatile per fare i compiti e giocarci si scontra drammaticamente con la probabilissima e rapida trasformazione dell’apparecchietto in denaro contante da parte delle famiglie, con il conseguente sviluppo di un mercato parallelo) e se 100 dollari possono essere una spesa sostenibile in certi paesi del Sud America (il Brasile per esempio sembra interessato al progetto) certamente non lo sono per i paesi poveri dell’Africa subsahariana e per moltissimi altri abitanti del pianeta. In Etiopia per fare un esempio il reddito medio pro capite annuale è di circa 130 dollari. Quale ministero della istruzione potrà mai spenderne 100 in un laptop per un adolescente?
Il vaporware del Media Lab. La distanza fra una maniera di affrontare i problemi del pianeta con la mentalità piramidale tipica delle società occidentali per le quali 100 dollari sono una inezia e, di contro, la necessità ogni giorno più impellente di ridurre la povertà del mondo, anche attraverso strade alternative rispetto a quelle conosciute. Le previsioni nel caso in questione sono persino troppo facili: il progetto OLPC durerà qualche settimana, il tempo di scomparire dalle prime pagine dei giornali. Poi per i paesi poveri alla periferia del mondo sarà il caso di pensare a qualcosa d’altro, magari meno spettacolare e più concreto.
I precedenti editoriali di M.M. sono qui