Roma – La cosa che maggiormente mi colpisce del breve saggio di Paolo Landi che Bompiani ha da poco pubblicato con il titolo Impigliati nella rete sono le ultime pagine. Pagine bianche, intitolate “annotazioni” nelle quali il lettore che lo desiderasse può appuntare spunti di riflessione o altri pensieri che la lettura del testo gli ha consigliato. Vediamo di riempirle con qualche considerazione.
“Impigliati nella rete” è un saggio breve che affronta un argomento importante, quello della piena condiscendenza nei confronti della tecnologia come segno distintivo dei nostri tempi. Si tratta di un tema centrale e molto poco trattato, difficile da approfondire senza scadere nella invettiva superficiale e poco informata. Che è poi, in parte, il destino di questo breve pamphlet.
Le 90 pagine di “Impigliati nella rete” sono una raccolta di luoghi comuni sugli effetti nefasti dell’ubiquitarismo tecnologico, conditi con alcune citazioni colte e proposti alla valutazione del lettore all’interno di un disegno trasparente e didascalico: quello secondo il quale ogni innovazione ed ogni nuova scelta sociale legata allo sviluppo tecnologico presenta un conto da pagare nel confronti del quale – chissà perché – siamo soliti chiudere gli occhi.
Le contrapposizioni quindi si sprecano e giungono puntuali e prevedibili mano a mano che si avanza nella lettura: c’è Wikipedia contro la Britannica, c’è la concretezza del reale e la vacuità del virtuale (ancora?), le solitudini dietro lo schermo contrapposte alla vitalità delle piazze. E via di questo passo, dentro una disamina dei danni legati alla costruzione di identità di rete fittizie o alle distorsioni sociali indotte da Second Life. Internet come il luogo del predominio della quantità sulla qualità e perfino di una sorta di eterogenesi dei fini alla quale, secondo l’autore, nessuno sembra poter scampare: giungemmo per comunicare fra noi e fummo – a nostra insaputa – comunicati (dalle aziende che usano la rete per venderci i loro prodotti).
Per Landi la tecnologia è la madre di tutti i vizi: dalla reperibilità 24/7 legata alla telefonia mobile ed alle reti di computer che trasforma ogni istante della nostra vita in tempo adatto al lavoro, al sovraccarico informativo che sottopone il nostro cervello a rallentamenti e crisi da affaticamento. Dalla tecnologia discendono nuove forme di corrosione sociale, per esempio l’esclusione dei più anziani dai processi economici legati alla rete Internet (ma Rupert Murdoch quanti anni ha?), nuove inattese condanne come quella di essere sottoposti allo spam, illusioni come quella di immaginare nuove forme di partecipazione sociale e politica per uno strumento che invece orienta in direzione opposta.
Tutto è falso insomma, senza curarsi troppo dei soliti distinguo di prammatica. YouTube è il demonio, le casalinghe “si rifugiano in una vita virtuale per sfuggire alle banalità del quotidiano” , esistono docenti universitari che “scelgono un avatar bambina per vendere di più in traffici commerciali poco chiari” (non chiedetemi cosa significhi questa frase, non ne ho idea), “studentesse che diventano modelle per videogiochi” . Un delirio insomma.
L’autore sembra in grado di elencare i guasti possibili (con una certa allegra approssimazione per eccesso per ciò che attiene pervasività ed effetti) legati al contesto tecnologico nel quale siamo tutti avvolti ma il suo compito termina lì. Nessuna analisi costi-benefici, nessuna scappatoia che non sia quella consolatoria e impossibile di un dietrofront dal vago sapore luddistico. L’unica eccezione a questo arretramento è il suggerimento, davvero modesto, di considerare Internet come un elettrodomestico nei confronti del quale mantenere il controllo ( “Oggi che la falce e il martello hanno smesso di essere ideologia e sono tornati ad essere due utensili, il martello almeno, sarebbe l’ora che anche Internet smettesse di essere filosofia per diventare come un asciugacapelli: qualcosa di cui ci si serve per soddisfare un determinato bisogno” , pg.93).
Cita Marinetti e Collodi il nostro Paolo Landi, che si erge a emulo nostrano di Andrew Keen (purtroppo con minor costrutto dell’autore di “The cult of the amateur”, il più recente saggio “eretico” sulla rete internet fra i tanti che nel mondo anglosassone ciclicamente compaiono) e perfino incespica su Proust, attribuendo ad un aneddoto raccontato da un biografo dello scrittore (del quale trova la maniera di sbagliare anche il nome) il contenuto di una delle pagine più famose de “La strada di Swann”.
Certo non è necessario aver letto “Alla ricerca del tempo perduto” per poter scrivere un libro sui vizi della società tecnologica, ma quello che è certo è che testi del genere fanno da semplice contrappeso ad una tendenza che è certamente sotto i nostri occhi.
Cosi come abbiamo un sacrosanto bisogno di una meditazione pubblica ed aperta sui mille interrogativi che la crescita di Internet ha portato nelle nostre vite, altrettanto avremmo necessità di punti di vista informati ed articolati. Specie per non rendere un cattivo servizio a tutti i possibili lettori (ed in Italia sono moltissimi) che Internet conoscono poco o nulla. Non basta contrapporre ad una informazione entusiasta sui grandi cambiamenti indotti dalle nuove tecnologie, una di segno opposto che semplicemente ne sottolinei i possibili limiti. Avremmo bisogno di qualcosa di più.
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