C’è una traiettoria sottile ma molto evidente che unisce Aaron Swartz a Edward Snowden. Swartz è morto un anno fa , a soli 27 anni, era un hacker, uno dei pochissimi a cui un simile appellativo non vada stretto e non suoni banale. Si è ucciso, schiacciato dal peso delle sue scelte di campo o forse da differenti abissi della sua mente. Nulla del resto è più pericoloso del senno di poi se proviamo a indagare le ragioni di un suicidio, scelta imponderabile ed illogica per definizione. Tuttavia nel caso di Swartz, molto più chiaramente che in altre occasioni, la relazione fra la sua morte e l’ostilità diffusa che lo circondava, quella che siamo soliti riservare a tutto ciò che è nuovo e diverso, è tanto chiara da risultare quasi incontestabile.
L’ombra di un apparato autoritario e immobile che dai luoghi simbolo della conoscenza (il MIT di Boston) arriva fino alle aule di tribunale e alla pervicacia di un giudice, per stigmatizzare e punire le scelte di campo di un giovane che aveva progetti troppo grandi: liberare il mondo, spargere il sapere, togliere i legacci alla conoscenza. E che con i modi, l’avventatezza e l’incauto ottimismo dei vent’anni, è andato tragicamente a sbattere contro un sistema abituato ad altri argomenti, più tiepidi entusiasmi e differenti velocità.
Eppure se c’è un paese che è riuscito a valorizzare l’età dei giovani adulti questi sono gli USA: accade in particolar modo da qualche decennio nell’innovazione tecnologica, in ambienti nei quali, come in nessun altro comparto fatta forse eccezione per l’arte, la verginità è una moneta di scambio, il pensiero laterale un’opportunità, la rottura degli schemi un metodo ampiamente accettato, anche a costo di fallimenti e ripartenze.
Edward Snowden, da mesi in fuga obbligata da quello stesso Paese, costretto a riparare altrove come un ladro di polli per colpa di verità che non si possono dire, minacciato e svilito in ogni maniera possibile, perché solo gli autorizzati, nei modi e nei tempi dovuti, possono mostrare al mondo la luminosa scia di democrazia e libertà a stelle e strisce, mentre a chiunque altro che desideri farlo in autonomia tutto questo è precluso, è stato ripagato con la medesima moneta: un granitico muro di biasimo ed irriconoscenza da parte dello Stato chioccia che predica la libertà rifiutando i suoi uomini più liberi. Anche per lui vaste minacce di punizioni e galera.
Snowden è l’altro lato della medesima medaglia. Anche lui come Swartz rompe i codici, ribalta i comportamenti, anch’egli, per contestare pericolose prassi consolidate, utilizza la Rete. Questa è – intanto – la prima cosa che ce li rende entrambi vicini e che scatena solidarietà planetarie. Anche lui con l’ingenuità eroica dei vent’anni ottiene, esattamente come Aaron, l’effetto di mostrare al mondo le grandi ambiguità del gigante buono ma svela anche gli imbarazzanti vassallaggi dei tanti amici intorno. Disegna un pianeta nel quale in vaste regioni non vola foglia che l’America non voglia e lo fa con esempi concreti non con le elucubrazioni del complottista. Ed anche questo in fondo è ribaltare il tavolo, scoperchiare verità che restavano lì a sonnecchiare silenziose. Per estremo paradosso e per suprema complicazione, il Guardian di Londra è costretto infine a far pubblicare le carte di Snowden dalla sua redazione USA: le parole di un cittadino americano fuggito in Russia, pericolose da dire in Gran Bretagna, in una confusione di ruoli che non è solo apparente, ma il risultato di multipli incroci schizofrenici.
In nessuno dei due casi, né a margine della tragica fine di Aaron Swartz. e tantomeno nel caso di Edward Snowden, è stato possibile tentare il trucchetto del diverso e del pazzo , così egregiamente riuscito con Julian Assange, uomo strano e forse discutibile, esiliato nella piccola ambasciata dell’Ecuador a Knightsbridge. Due ragazzi normali, più normali della media, di una pulizia difficile da attaccare: nessuna possibilità di ridurli ai margini nella usuale delegittimazione che si applica tracciando una linea fra noi e loro, fra il normale ed il patologico.
Una delegittimazione usuale che nel caso di Snowden è stata comunque tentata nei primi mesi dopo la sua fuga ma con scarsi risultati. Nel caso di Swartz semplicemente non si poteva, perché il dolore della morte supera qualsiasi cinismo architettato ad arte, perché le minacce di anni di galera come punizione per aver liberato testi accademici su Internet raccontano un tale collasso di senso ed intelligenza che davvero non ammette replica. E nella drammatica evenienza di una morte, segna con un tratto di penna indelebile l’abisso di una nazione intera.
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