Tanto tuonò che… tuonò. Alla fine di un paio di giornate convulse, durante le quali in tanti abbiamo temuto il peggio, le minacce del ministro dell’Interno Maroni, secondo il quale il governo si apprestava ad imporre norme per censurare Internet sono rimaste, fortunatamente, semplici parole. È stato Maroni stesso ad annunciare che non ci sarebbe stato nessun decreto al riguardo, e che il Governo intendeva invece presentare un disegno di legge per semplificare il lavoro della magistratura alle prese con i reati commessi in Rete.
Parallelamente a questo il Ministro ha saggiamente annunciato l’apertura di alcuni canali di dialogo con i gestori di piattaforme sociali come Facebook e con i fornitori di connettività, per concordare in maniera preventiva comportamenti e procedure da attuarsi nel momento in cui si ravvisino violazioni di legge in Rete. Si tratta di una buona notizia e per una volta sarà comunque bene applaudire, anche se chi scrive sa bene come, nelle ore successive all’attentato a Berlusconi, dopo le prime scomposte dichiarazioni di politici e Ministri sulla estrema pericolosità della rete Internet italiana, molti esperti di Rete e qualche politico illuminato di entrambi gli schieramenti abbiano svolto un grande lavoro sotterraneo per far capire al Ministro i rischi legati alle affermazioni da lui stesso rilasciate. Un giorno li dovremo ringraziare pubblicamente.
L’altra buona notizia è che una descrizione di normalità della Rete, per una volta, è stata ascoltata in Parlamento per bocca di Pierferdinando Casini e sui grandi media per merito di Beppe Severgnini. In entrambi i casi, frasi di normalissimo buonsenso sulla natura di Internet sono suonate quasi incredibili in ambienti nei quali normalmente il preconcetto e la superficialità al riguardo imperano. Casini ha detto alla Camera: “Guai a promuovere provvedimenti illiberali. Le leggi esistenti già consentono di punire le violazioni. Negli Usa Obama riceve intimidazioni continue su Internet, ma a nessuno viene in mente di censurare la Rete”. Beppe Severgnini ha scritto a chiare lettere sul Corriere che: “Lanciarsi contro Internet perché qualcuno scaglia un souvenir appuntito al presidente del Consiglio appare bizzarro. La Rete non è stata né causa né strumento della violenza di domenica”.
Per citare invece un paio di divertenti (ed indecorosi) contraltari a questi commenti, il Presidente del Senato Schifani nelle stesse ore è riuscito a dichiarare che Facebook inneggia alla violenza peggio di quanto non facessero i gruppi estremisti durante gli anni di piombo, mentre la palma del non-sense più divertente va certamente attribuita a Bruno Vespa che ha annunciato in TV che Massimo Tartaglia, l’attentatore del Premier, sembra essere “vicino agli ambienti dei social network”. Qualsiasi cosa una frase del genere significhi.
Archiviate le buone nuove restano comunque in primo piano una lunga serie di comportamenti ed equivoci che fanno dell’Italia, ancora una volta, un paese lontanissimo dalla comprensione della Rete. Il più importante di questi per conto mio è quello dei grandi limiti mostrati da Facebook in questa vicenda. La normalità delle cose è che i rapporti fra fornitore di servizi e utenti siano regolati in maniera univoca e chiara. Su Facebook, che è oggi in Italia la piattaforma con il maggior numero di utenti, questo semplicemente non accade.
L’enorme confusione mediatica nata sull’onda dell’apertura sul social network di alcune pagine di fan di Massimo Tartaglia ne è un esempio evidente. Le pagine, dopo qualche giorno, sono state rimosse senza una spiegazione. La sensazione è che ciò sia avvenuto più per la grande pressione mediatica esercitata che non per il contenuto delle pagine stesse o per eventuali violazioni della policy in esse contenute. Questo mentre parlamentari come l’On. Mantovano affermavano in televisione che la polizia postale avrebbe certamente identificato e perseguito tutti gli autori di un simile misfatto.
Facebook è e resta una azienda privata che decide autonomamente come comportarsi in casi del genere: tuttavia, nel momento in cui effettua scelte che interessano molte migliaia di utenti, si dovrebbe anche trovare la maniera di argomentarle nei confronti della propria grande audience. E in casi del genere non è nemmeno possibile usare differenti pesi e misure quando, per esempio, si consente, come è avvenuto sempre in questi giorni nella furbissima Italia, che gruppi Facebook con quasi due milioni di iscritti cambino improvvisamente nome e si trasformino (assieme ai loro ignari sottoscrittori) in gruppi di sostegno a Silvio Berlusconi.
Delle due una: o si ammette, come del resto appare ben evidente ad uno sguardo minimamente distaccato, che i gruppi su Facebook siano tutti, nel loro complesso, degli innocui passatempo che non meritano troppa considerazione (e allora anche teorizzare che diventare fan di Massimo Tartaglia sia apologia di reato è una bella forzatura) oppure, se davvero questi ambiti sono il focolare che scalda la nuova democrazia digitale, anche turlupinare due milioni di iscritti cambiando il nome al gruppo “No Facebook a pagamento” in “Solidarietà a Silvio Berlusconi” deve diventare un reato da codice penale o causare per lo meno uguali censure interne al network.
Questo è, a ben vedere, il problema centrale della democrazia in Rete oggi. Troppo spesso si decide di declinarla nel ristretto giardinetto dei propri pensieri. In Italia alcune migliaia di imbecilli che si dichiarano fan di uno squilibrato (senza spendere un centesimo, senza scendere al freddo di una piazza per farlo) diventano un caso politico capace di incidere sulla libertà di espressione di 60 milioni di cittadini. E ciò avviene non nella rappresentazione minima che andrebbe ascritta ad un fenomeno del genere (qualcosa del tipo “Guarda un po’ quanta gente detesta Berlusconi”) ma nella sua declinazione drammatica e improbabile di un esercito pronto ad uccidere il Premier che deve essere in qualche modo affrontato ed oscurato affinché il paese non precipiti nella barbarie.
Senza nemmeno accorgersi che abita molta più democrazia dentro una pagina Facebook di un tizio che odia Obama nel (meritato) disinteresse generale, che non nelle minacce censorie di tanti rispettabili rappresentanti del nostro Parlamento.
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