Una delle discussioni più animate degli ultimi giorni in Italia riguarda Whatsapp, in particolare la novità dell’ultima versione del software di messaggeria che segnala quando il nostro interlocutore ha effettivamente letto il messaggio che gli abbiamo appena inviato. Si è trattato di una discussione molto accesa e vasta che non va banalizzata per almeno due ragioni: perché tocca direttamente milioni di persone andando a frugare nell’intimo delle loro relazioni sociali e perché, più silenziosamente, accenna a un problema che non è inedito ma è comunque centrale nella gestione delle nostre interfacce digitali.
La questione sociologica si presta a mille differenti considerazioni, la più immediata e ovvia riguarda la nostra attitudine a utilizzare la tecnologia come paravento relazionale. Fino a quando Whatsapp non ha deciso di colorare di blu la spunta del messaggio che abbiamo inviato, segnalandoci il fatto che dall’altra parte del filo qualcuno lo aveva letto, i software di messaggistica, come altri strumenti di comunicazione digitale, erano considerati sistemi molto duttili di interdizione della comunicazione. “Non ti ho risposto perché la mail era finita nello spam”, “il cellulare non era spento ma aveva la batteria scarica”, “la connessione Internet come al solito non funzionava”, “avevo ricevuto il tuo messaggio ma avevo dimenticato il cellulare a casa”. Tutti noi abbiamo utilizzato simili scuse almeno una volta per giustificare una mancata risposta: a tutti noi è accaduto, almeno una volta, di trovarci effettivamente in situazioni del genere e magari di aver imprecato contro la tecnologia che non funziona e che ostacola le nostre relazioni.
Fino a quando il nostro universo digitale era asincrono, scollegato dal tempo reale, simili contesti erano sottoposti ad una ampia variabilità e la email ne era lo strumento principe. Asincrona per eccellenza (e per questa ragione da molti idolatrata come alternativa all’invasività della comunicazione telefonica) la posta elettronica subiva docilmente i diktat dei suoi utilizzatori. Il tempo fisiologico di risposta ad una mail? Dipende: da 30 secondi a 1 settimana. Dentro quell’intervallo di tempo c’era l’universo del possibile. Tempo fisiologico di risposta ad un SMS? Forse 24 ore. A una telefonata? Al massimo qualche ora.
Se la comunicazioni digitale nella sua prima giovinezza ha consapevolmente rifuggito il tempo reale, innamorandosi dei tempi dilatati delle email (anche se a quei tempi si era soliti sottolinearne la velocità formidabile rispetto al sistema postale), più tardi, dentro una sua tara evolutiva che sarebbe utile indagare meglio, ha iniziato a rivalutarlo con sempre maggior forza. Da questo punto di vista l’invasività sociale della spunta blu di Whatsapp ha oltrepassato il confine ed è oggi infinitamente superiore a quella di una sequenza di petulanti telefonate.
Ma è come se fosse ormai troppo tardi per lamentarsene: nel momento in cui abbiamo deciso di ridurre gli spazi temporale fra messaggio e risposta abbiamo anche più o meno consapevolmente, accettato gli oneri che tutto questo comportava. Se tempo reale deve essere, che tempo reale sia.
Differente, e se si vuole più complicato, il tema dell’interfaccia e delle sue logiche. Come mi spiegava qualche sera fa Giovanni Boccia Artieri, sociologo dei nuovi media, la ragione per cui Whatsapp ha interesse a imporre la spunta blu (e non per esempio a renderla opzionale come altri software fanno) è perché il flusso informativo è il suo business e tutto ciò che lo incrementa fa parte del processo di espansione dello strumento. La spunta blu serve insomma a farci usare Whatsapp sempre di più, serve a consolidare una supremazia dell’interfaccia sui nostri pensieri e in termini più generici stigmatizza la nostra aderenza ai desiderata del software.
Diciamo tutti da anni che i media digitali sono ormai troppo raffinati ed avvolgenti per essere lasciati alla progettazione degli ingegneri o degli uomini del marketing; toccano corde della nostra vita di relazione (la sterile insurrezione popolare alla spunta blu di Whatsapp ne è un segno) che riguardano in profondità i nostri processi relazionali e culturali. Le interfacce e le loro logiche sono insomma una forma contemporanea e molto poco considerata di gestione del potere. Questo è forse il centro della questione: dentro questa nostra sottovalutazione c’è a tutti gli effetti la potenza con la quale una semplice funzione software mostra effetti dirompenti nelle nostre privatissime relazioni. “Code is poetry” si diceva qualche anno fa. No so, magari è vero: di sicuro sempre di più oggi “Code is power”.
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