Se c’è una lezione, anche piccola, che forse possiamo ricavare dalla sentenza di condanna per “stampa clandestina” di Carlo Ruta, una sentenza tutta italiana, vergognosa come solo certe sentenze italiane sanno essere, questa è che Internet ha bisogno di essere lasciata in pace. Da più di un decennio ormai, quando ciclicamente qualcuno in questo Paese presenta un progetto di legge o suggerisce una modifica costituzionale per regolamentare gli eccessi della rete o per salvare Internet dai cattivi di turno, io inizio a preoccuparmi. Fatte salve le migliori intenzioni di molti, l’esperienza ci insegna che in questi casi la vacanza legislativa crea meno danni della nuova norma, l’adattamento alla rete delle vecchie leggi civili e penali, in vigore all’esterno delle nostre ADSL, sono meno dirompenti del comma aggiunto ad hoc o della legge pensata per la rete Internet.
Questo solitamente avviene per due ragioni: perché la comprensione dell’ecosistema di rete è oggettivamente complicata e fuori dalla portata di gran parte dei nostri parlamentari; perché Internet, ovunque nel mondo, scatena timori anarchici e solletica languori di controllo anche nelle menti più aperte. Ho visto schiere di apprezzati garantisti trasformarsi in ciechi censori nel momento stesso in cui la discussione toccava i temi dell’accesso alla rete.
Carlo Ruta è stato condannato in virtù di una norma che risale al periodo fascista, il reato di “stampa clandestina” che oggi è difficile anche solo da immaginare. La stampa è fuori moda da un po’, la clandestinità rimanda ad un universo sotterraneo e misterioso che è l’esatto contrario di un blog come era quello dello storico siciliano: un blog, luogo aperto per eccellenza, dove quanto da noi scritto, un attimo dopo il click di pubblicazione, è teoricamente disponibile per tutto il mondo. Le parole di Ruta, con tanto di nome e cognome sotto, erano l’esatto contrario della clandestinità.
Mentre gli esperti di diritto ci dicono che, come sempre, occorrerà aspettare le motivazioni della sentenza, è piuttosto evidente che questa condanna è figlia non solo di una legge carica di polvere e muffa datata 1948 ma anche, almeno in parte, di uno dei tanti afflati normativi nei quali la politica di questo paese ha realizzato se stessa da quando esiste Internet. Nel caso in questione la Legge 62/2001 sull’editoria che definisce, goffamente e con colpevole vaghezza, cosa sia un “prodotto editoriale” nel momento in cui alla carta e all’inchiostro si sostituiscono i bit. Avevamo necessità, dieci anni fa, di una simile norma che ha saputo creare formidabili confusioni fra obblighi di registrazione di siti web, direttori responsabili e stupidaggini varie applicate alla libera espressione del pensiero dei cittadini in rete? Certamente no e non è un caso che nessun altro paese occidentale si sia posto domande del genere. Cose del tipo: quante volte alla settimana devo aggiornare il mio blog per non essere costretto a registralo in tribunale come testata giornalistica nominando un direttore responsabile?
Ci fu, ai tempi della discussione in Parlamento della legge nel 2001, una grande mobilitazione di rete, oltre 50000 persone firmarono la petizione che questo giornale presentò all’allora Presidente della Camera affinché le mani della politica evitassero di stringere al collo una rete piccola ed agli esordi e non creassero inutili confusioni alle nuove pratiche comunicative dei cittadini, ovviamente non fummo ascoltati.
La condanna per “stampa clandestina” di Carlo Ruta è anche figlia di questa passione per l’iper-regolamentazione. I progetti di legge troppo spesso, quando non sono figli dei desideri di qualche ingombrante lobbista, sono semplici esercizi di stile di gentili signori dall’ego smisurato, raramente aderiscono alle esigenze dei cittadini. I quali, per ciò che attiene alle faccende di Internet, sarebbero grati alla politica se al troppo si preferisse il troppo poco: si tratterebbe, tutto sommato, di una forma di apprezzabile understatement , creerebbe meno problemi, alla lunga farebbe meno danni.
Difendiamo la rete ogni giorno (e Dio sa se ne ha bisogno) ma senza dedicarle una Costituzione per Internet da suggerire al mondo intero, occupiamoci con costanza del diritto all’accesso, che è uno dei valori fondanti della nostra società prossima ventura, ma senza dedicarvi un articolo bis della Costituzione Italiana. Scriviamo meno leggi e adoperiamoci di più, osserviamo gli altri, che spesso sono più bravi di noi, prima di farci venire grandi idee. E soprattutto lasciamo Internet fuori dalle nostre piccole aspirazioni provinciali. È cresciuta benissimo lo stesso, con un respiro diverso rispetto a quello che ci riservano le nostre piccole stanze. La Rete funziona, lasciatela in pace se potete.
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