È accaduto che per qualche ora un giovane statunitense, ignaro del destino tragico occorso anche alla sua famiglia, usasse la propria pagina Facebook come flebile microfono per discolparsi col mondo. Per qualche ora la battaglia dei comunicati e la loro potenza di emissione è stata asimmetrica come non mai: da un lato CNN , Huffington Post , Slate che davano in pasto all’opinione pubblica mondiale le foto prelevate dal profilo Facebook del crudele assassino di bambini di una scuola elementare del Connecticut, dall’altra i messaggi da un autobus del presunto assassino (quando secondo i media era già morto suicida alla fine dell’inumano attacco) nei quali diceva: “Ehi, non sono io, fottiti CNN, io sono a lavorare non c’entro nulla con tutta questa storia”.
Tutti oggi abbiamo una voce e ce l’abbiamo subito. E se abbiamo una voce, se possiamo usarla e se le cose che diciamo sono utili e interessanti troveremo rapido ascolto anche se il segnale che emettiamo è debolissimo. Mentre Ryan Lanza chattava dall’autobus ed i suoi amici lo aiutavano a diffondere i suoi annunci di estraneità alla tragedia che si stava compiendo, i professionisti dell’informazione iniziavano a fare i conti con la cantonata che avevano preso. Non era lui l’assassino, le foto che avevano diffuso con veloce superficialità non erano le foto del killer senza cuore ma quelle del fratello, innocente e vittima pure lui di una tragedia senza eguali.
Sono errori impossibili da rimediare con un semplice edit . Il profilo dell’assassino che ciascuno di noi ha memorizzato non abbandonerà più i tratti del viso di Ryan scambiato per il fratello minore Adam. Di quest’ultimo invece esistono solo foto da adolescente, quasi come se la previsione di una simile indecente popolarità lo avesse un giorno consigliato a non lasciare troppe tracce. Non a caso nel registro della scuola (fonte giornalistica per eccellezza in USA nei tempi pre-Facebook) la foto dell’assassino non è stata trovata, sostituita dalla scritta “imbarazzato dalla macchina fotografica”.
In ogni caso sottilizzare è inutile: nessun filo di Arianna condurrà CNN a casa dei milioni di persone che seguivano le breaking news dal teatro della strage per spiegare a ciascuno di essi che le foto prese su Facebook erano quelle dell’assassino sbagliato. Per dirla tutta ad una buona parte dell’audience la marcia indietra dei media sull’anagrafica del killer, per quanto deontologicamente corretta, risulterà del tutto irrilevante. Ryan vale Adam, un assassino vale l’altro, anche se uno lo era e l’altro no.
È la sindrome del dentifricio, una volta uscito dal tubetto, con tutta la buona volontà del mondo, non ci sarà modo di rimetterlo al suo posto. È per via delle bizzarrie del dentifricio che i media su Internet dovrano iniziare prima o poi a darsi tutti una calmata e a smetterla di comportarsi come i peggiori blog. Davanti ai nostri occhi di lettori è in corso un’asta al ribasso, una gara a chi fa peggio che coinvolge tutti, prestigiose testate e e neofiti scalpitanti e nella quale perfino noi, che scriviamo su Twitter la prima cosa che ci passa per la mente, abbiamo un ruolo.
Anche volendo applicare alla Rete la vecchia logica dello scoop (prestigio e soldi in cambio di notizie in esclusiva) nella stragrande maggioranza dei casi arrivare primi sul Web non garantisce granché. Se scrivi per primo che l’assassino della scuola elementare aveva un profilo Facebook e pubblichi le sue foto, chiunque pochi secondi dopo potrà far altrettanto e la rendita di posizione si dissolverà come neve al sole. Ciò che un tempo erano soldi per l’editore e pacche sulle spalle per il giornalista oggi sono paranoie per addetti ai lavori senza grandi ricadute pratiche. In altre parole il Watergate è stato archiviato dal pensionamento delle rotative ma la testa dei giornali è rimasta la medesima. Forse sarebbe il caso che tutti (ma la stampa per prima) iniziassimo a pesare le parole su Internet esattamente come si faceva al tempo sulla carta stampata.
Pesare le parole del resto è l’unica distanza che separa le redazioni da tutto il resto della comunicazione intorno, un universo di frasi e punti di vista che dieci anni fa era quasi assente ma che ora è intensamente abitato e dentro il quale è possibile trovare di tutto. Dare un peso alle parole è anche il solo modello di business possibile, non solo per il cosiddetto giornalismo di qualità ma anche per tutti coloro che aspirano ad elevare i propri pensieri dal rumore di fondo di una Rete gigantesca, rapidissima e così piena di parole.
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