Noi siamo i buoni. Una considerazione consolatoria che in rete ha molte possibilità di essere soddisfatta. Internet stessa è – prima di molte altre cose – il luogo delle possibilità, la piattaforma di mille aggregazioni positive ed utili. L’elenco delle bontà di Internet richiederebbe molte pagine e non comprenderebbe tutte le iniziative ammirevoli e innovative che sarebbero sorte nel frattempo.
Il lato non illuminato di questa medaglia, che ha saputo creare Wikipedia ed i suoi tanti fratelli, è altrettanto importante ma assai meno consolatorio e positivo. Qualche giorno fa Il Post ha pubblicato un articolo interessante sul cosiddetto attivismo da click, quella ampia e conosciuta pratica di rete di raccogliere pareri e punti di vista all’interno di petizioni online a favore o contro questa o quella iniziativa. La pratica è talmente diffusa e numericamente significativa che esistono piattaforme web apposite nelle quali chiunque può rapidamente organizzare petizioni e pubblicizzarle, raccogliendo adesioni attraverso la rete Internet. Facebook stesso e i social network in generale sono diventati il grande luogo della protesta elettronica, in virtù delle loro intrinseche capacità di amplificare il passaparola all’interno della propria cerchia relazionale. Lo stesso utilizzo ampio della raccolta elettronica di firme è stato rapidamente adottato dai giornali online che, ormai quotidianamente, propongono ai propri lettori raccolte di firme a sostegno di istanze politiche, amministrative o giudiziarie.
Ma qual è il problema che la nuvola elettronica del consenso tematico rischia di creare? Lo scrive Micah White sul Guardian di qualche settimana fa: la democrazia del click, secondo White, rischia di sostituirsi all’attivismo dei movimenti di piazza, spostando su Internet, in un luogo a consumo calorico pari a zero, non solo la creazione del consenso rispetto ad un tema, ma anche il peso politico che da tale aggregazione discende. E siccome il peso politico di una aggregazione in rete è molto vicino allo zero, altrettanto insignificante sarà la capacità di simili iniziative di incidere concretamente sui temi in discussione.
Detto in parole crude, la politica può essere impressionata da una massa di cittadini in piazza, molto meno da un diluvio di firme su una pagina web.
Gli anglosassoni, che hanno un neologismo per tutto, chiamano questa tendenza slacktivism che è un termine bellissimo per descrivere l’attivismo dei fannulloni. Non si tratta di una definizione totalmente negativa anche se riguarda – come spiega la stringata voce su Wikipedia al riguardo – “il desiderio delle persone di rendersi utili senza alzarsi dalla sedia”.
Posso partecipare ad un movimento politico mettendo un adesivo sulla carrozzeria della mia auto? Oppure iscrivendomi ad un gruppo su Facebook? O firmando la vibrante lettera aperta di un gruppo di intellettuali sul sito web di un quotidiano? È certamente possibile ma, nel momento in cui un simile impegno sostituisce del tutto altre forme di mobilitazione sociale, il lato oscuro della medaglia finisce per prevalere su quello migliore e illuminato e Internet consuma il proprio potenziale di formidabile strumento di aggregazione e diffusione all’interno di prassi frequentemente irrilevanti.
Pur con luci ed ombre negli ultimi anni anche in Italia alcuni eventi politicamente significativi sono nati e cresciuti in rete per poi diventare tema centrale nelle cronache dei giornali e concreta discesa popolare in piazza, tuttavia, anche da noi, nella stragrande maggioranza dei casi, iniziative di sensibilizzazione popolare nascono e muoiono ogni giorno in rete senza avere la capacità di spostare un singolo piccolo sassolino.
Come si esce da un simile impasse? Intanto aggiungendo sacralità al punto di vista delle persone in rete. Ciò significa intanto rifuggire dall’abuso degli strumenti di aggregazione popolare online. Perché accanto ad un attivismo dei fannulloni che cliccano svagatamente qualsiasi campagna online, esiste anche un ben più colpevole attivismo dei propositori, quella spiacevole tendenza, anch’essa a costo zero, di chiamare il popolo alle armi per ogni piccola quisquilia o, peggio, per banali ragioni di personale visibilità. A minimizzare il danno democratico dello slacktivism c’è poi da considerare, per lo meno nel nostro paese, il contesto civile generale. Una identità dei cittadini verso la politica ai minimi storici, una capacità dell’associazionismo di radunare istanze modestissima, una autorevolezza sindacale ormai ridotta al lumicino, sono paradossalmente elementi che depotenziano i rischi delle mobilitazioni online. Che con ogni probabilità non andranno ad incidere su nulla di più della nostra autostima ma che, in molti casi, non rischiano altro di sostituirsi al nulla che le precedeva.
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