Randi Zuckerberg, sorella del fondatore di Facebook, ha ragione. Postare su Twitter una foto da lei pubblicata su Facebook solo per una ristretta cerchia di amici e familiari è stato un gesto leggermente deprecabile. Si tratta però di un gesto usuale, ampiamente favorito e benedetto da Facebook che da anni, in ogni maniera, tenta di ampliare il pubblico potenziale di qualsiasi frase, immagine o altro contributo che i suoi iscritti mettono online. Randi Zuckerberg ricorderà bene le affermazioni del fratello impegnato a spiegarci come il desiderio di condivisione sia un tratto distintivo delle ultime generazioni e non possa essere in alcuna misura compresso da preoccupazioni quali quelle sulla privacy che ormai, diceva il tenero Mark, è un cimelio del secolo scorso e non interessa più a nessuno.
Facebook benedice da anni, più o meno silenziosamente, il seppellimento progressivo della nostra privacy, lo fa talvolta a parole ma molto più di frequente scrivendo codice per la propria piattaforma: la messa in mostra di ogni nostro segnale di presenza in rete, dalla lettura di un giornale al like su una pagina web, da una foto di nostra zia, alla firma di una petizione contro l’odore pungente del cavolfiore, tutto deve essere per quanto possibile tracciato sulla piattaforma. Il grafo sociale è cool, l’esposizione dei nostri dati è il segno dei tempi e nessuno si dovrà opporre al nuovo che avanza.
Così il moralismo di Randi Zuckerberg è sacrosanto e fuori dal mondo. Sacrosanto perché è vero, la riservatezza è un valore che, se non vale per noi, dovrebbe valere per lo meno nei riguardi di chi ci sta attorno, fuori dal mondo perché se c’è una famiglia al mondo che dovrebbe fare buon viso a cattivo gioco in situazioni del genere questa è quella del fondatore di Facebook.
Facebook è oggi, in relazione alla vastità mondiale dei suoi sottoscrittori, il serbatoio quotidiano di migliaia di lesioni delle riservatezza analoghe a quella subita da Randi Zuckerberg. Ne è per sua stessa natura una delle cause. In molti casi non stiamo parlando di situazioni innocue come quella della esposizione mondiale avvenuta per errore della cucina di casa Zuckerberg, ma della messa a nudo, ampia e incontrollata, di frammenti piccoli o grandi di vite intere, spesso improvvisamente sconvolte da tragedie familiari o eventi criminali.
Mentre Randi si preoccupa del disvelamento dei propri pensili pastello, foto di assassini quando erano minorenni, dirigenti d’azienda ubriachi, fidanzate tradite escono da Facebook per approdare sui giornali, nelle aule dei tribunali o semplicemente su Internet, esposte allo sguardo attento di una umanità ormai allenata al monitoraggio e alla condivisione dei fatti altrui.
Segno dei tempi, direbbero gli Zuckerberg, ma anche modello di business, elegantemente mimetizzato in territorio di relazioni sociali. La richiesta di personale responsabilità che Randi Zuckerberg seccamente invoca su Twitter è certamente indirizzata verso i tanti nostri patrimoni individuali ed è la benvenuta. Ma c’è chi una simile attenzione ce l’ha e chi no, c’è chi magari se ne dimentica per un istante, e soprattutto esiste una vasta platea di persone che utilizzano le reti sociali senza nemmeno porsi il problema del confine fra pubblico e privato. E nel giorno in cui se lo dovessero chiedere si troverebbero di fronte il firewall gentile di Facebook che ha reso non esattamente semplicissimo segmentare i vari gradi di privacy del proprio profilo, tanto che moltissimi utenti ignorano perfino che lo si possa fare.
Randi Zuckerberg è nella condizione invidiabile di poter influenzare concretamente una nostra relazione adulta con il concetto di riservatezza e dicendo questo non mi riferisco alla morale piccata su Twitter verso chi ha esposto al mondo la sua foto. Se questo non avverrà, se Facebook continuerà a voler essere la formidabile macchina della nostra esposizione in rete costi quel che costi, allora forse la cosa migliore sarebbe che, semplicemente, in simili innocue situazioni, Randi se ne rimanesse in silenzio.
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