Quello che probabilmente accadrà nelle prossime settimane e nei prossimi mesi sarà che la stampa italiana, attingendo al vasto archivio del giornalismo d’oltreoceano, si faccia interprete, ancora una volta, di un grido di allarme del quale si occupa con incessante curiosità da almeno un decennio: Internet ed i suoi pericoli.
Nei primi anni dello sviluppo della Rete, quando Internet era un oggetto misterioso per quasi tutti, giornalisti compresi, la declinazione di questo pericolo era prevalentemente basata sui contenuti che era possibile raggiungere: la Rete conteneva pericolosi manuali per costruire missili che ci sarebbero ricaduti sulla testa, bombe che ci sarebbero esplose fra le mani, vademecum particolareggiati per aspiranti suicidi. Poi è venuto il tempo della pericolosità di Internet basata sulle frequentazioni possibili e sul tipo di persone che la abitavano: secondo i racconti sui media italiani i terroristi la utilizzavano per comunicare fra loro e per fare proselitismo, i pedofili l’avevano trasformata in un luogo per arricchire e potenziare i loro turpi traffici, in barba alle norme ed ai controlli vigenti.
Infine, superati con difficoltà tutti questi pregiudizi, di fronte ad un successo numerico della Rete accaduto nonostante questi concreti pericoli, anche la divulgazioni che la riguarda ha iniziato a farsi più raffinata ed a cambiare bersaglio. Una volta che è stato evidente a tutti che Internet era in grandissima parte qualcosa di differente dai ritratti deprimenti che la stampa italiana le dedicava, che era uno strumento di crescita e relazione velocissimo e positivo, utilizzato da milioni di persone in tutto il pianeta, la maggioranza dei quali non erano né pedofili né terroristi né aspiranti bombaroli, e nemmeno depressi in cerca di manuali per farla finita, a quel punto lo sguardo critico si è spostato altrove: andando ad interessare l’analisi sociologica del nostro vivere in rete.
Così da un paio di anni a questa parte si è aperto un nuovo fronte, per la verità molto più interessante e concreto, di critica alla Rete basato sulla analisi dei cambiamenti biologici indotti da Internet sul nostro modo di ragionare e di imparare.
Qualche giorno fa il New York Times ha pubblicato un lungo articolo riassuntivo sulle ricerche scientifiche che molti istituti in tutto il mondo stanno tentando per cercare di comprendere come il nostro cervello sita cambiano nell’era del multitasking: uno dei punti fermi sui quali molti scienziati sembrano oggi concordi è quello secondo il quale, come è accaduto molte altre volte in passato, il nostro cervello sta cambiando in relazione agli stimoli digitali dai quali è ormai avvolto. Lo scrive bene Nora Volkow del National Institute of Drug Abuse : “La tecnologia sta reimpostando il nostro cervello”.
Di fronte ad un assunto del genere si possono avere differenti reazioni, molte di quelle che siamo destinati a leggere nei prossimi mesi sui foglio divulgativi saranno probabilmente del tipo: “La tecnologia sta distruggendo il nostro cervello”.
Fino ad oggi il numero di coloro i quali sono immersi quotidianamente in una nuvola di stimoli digitali che comprende posta elettronica, messaggeria, siti web, contenuti audio-video fra loro continuamente mescolati nell’arco di gran parte della giornata, è ancora tutto sommato basso: ma cosa accadrà domani quando simili comportamenti sociali saranno, verosimilmente, la norma per un numero ampio di cittadini del mondo? Gli studi preliminari disponibili ci dicono che esistono problemi oggettivi di adattamento a questi nuovi stimoli, e che esistono significative interferenze di questo bombardamento informativo nei confronti di questioni importanti che ci riguardano tutti: come la capacità di concentrazione, l’archiviazione delle informazioni, una certa diffusa superficialità di elaborazione e di attenzione. A margine di tutto questo c’è la rappresentazione mediatica: questa rappresentazione si candida a diventare, almeno da noi, il nuovo terzo livello dell’attacco alla Rete.
Circa un anno fa Nicholas Carr, giornalista tecnologico americano dotato di un grande talento recentemente riconvertito ad un certo distaccato catastrofismo Internet, pubblicò su The Atlantic un articolo preliminare dal titolo: “Google ci rende stupidi?”. Un articolo interessante , nel quale il punto interrogativo finale del titolo lascia rapidamente il posto ad una sorta di grido di allarme forse non completamente disinteressato, visto che in USA il bastian contrario digitale è da sempre una figura professionale molto ben retribuita. Non a caso negli ultimi 12 mesi Carr si è distinto sul suo blog per aver mostrato posizioni sempre più critiche nei confronti della Rete, e sta per pubblicare un libro sull’argomento che si intitolerà “The Shallow”, anch’esso dedicato ai cambiamenti sociologici e culturali legati allo sviluppo delle reti.
Tutti questi stimoli, che giungono dal mondo scientifico e da quello divulgativo americano, sono destinati ad amplificarsi e banalizzarsi all’interno del racconto che ne verrà fatto sui media italiani. La riduzione ai minimi termini di problematiche complesse e multiformi sarà con ogni probabilità riassunta nel solito messaggio secondo il quale Internet fa male. Faceva male anni fa alle finanze di chi si avventurava ad usare la carta di credito online. Faceva male ai nostri figli in chat insidiati da migliaia di pedofili. Faceva male alla industria culturale affossata dal file sharing. Da domani farà male anche ai nostri cervelli incapaci di adattarsi con rapidità al diluvio di nuove informazioni che li raggiungono. Tutto questo è sempre stato ed è anche oggi in parte vero. Ed in gran parte no.
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