Il conto è presto fatto. Il numero massimo di social network che un utente medio della rete Internet è in grado di seguire è uguale a uno. Questo accade per ovvie ragioni di economia dell’attenzione ma anche per una scelta di architettura che è andata consolidandosi in questi ultimi anni che prevede grandi concentrazioni di servizi dentro un singolo contenitore. Le piattaforme di social network per un certo periodo sono cresciute parallelamente, in una sorta di ecologia sussidiaria. Dove finiva una iniziava l’altra. E gli utenti completavano le proprie esperienze di rete su ambiti differenti con un qualche grado di evidente specializzazione e saldi fili orizzontali, a unire luoghi di rete non concorrenziali ma dispersivi. Flickr per le foto, Youtube per i video, WordPress per i blog, Twitter per le conversazioni sintetiche ecc.
Poi le cose sono andate diversamente (anche perché ognuno di questi ambiti portava il proprio personale spazio di conversazione che andava presidiato) e come forse era ovvio ha prevalso la concentrazione dei servizi: le piattaforme sociali, del resto, subiscono come nessun altro la dittatura della massa critica. Il numero di utenti è il vero discrimine, metti assieme un gran numero di utenti, non importa come lo fai, e avrai vinto.
Così, senza troppo storie, ad un certo punto Facebook ha vinto. Una volta abbandonata l’idea di riempire uno spicchio e solo quello della esperienza sociale di rete dell’utente, tutti gli altri hanno iniziato a voler assomigliare a Facebook. Perché gli utenti erano ormai lì e l’unica maniera per avere successo nel complicato mondo del grafo sociale (dove a quantità di dati raccolti corrisponde capacità di generare denari) era semplicemente prendere quegli utenti e trascinarli altrove con nuove feature , servizi ben fatti, specchietti per la allodole e birra gratis.
In realtà è assai più complesso di così. Perché oggi i social network hanno lunghi tentacoli e toccano e condizionano la Internet tutta: indirizzano il traffico verso i siti di news, raccolgono dati anche fuori dai social network stessi con i loro bottoncini e le opzioni di condivisione, influenzano la qualità dei risultati dei motori di ricerca. C’è un intero universo di sensazioni, immagini e opinioni in tempo reale che cerca modalità di rappresentazione in rete e che molti considerano come l’oro del venture capitalism prossimo venturo: questo universo viene di fatto prodotto oggi dentro i social network.
Seguendo questa chimera di centralità Twitter è cambiato moltissimo negli ultimi anni, altri come Myspace sono totalmente collassati, l’intero universo dei blog ha fortemente ridotto la propria aspirazione di nuova palestra della informazione allargata. Perfino Apple, da sempre austeramente allergica ad ogni interesse del genere, ha implementato una improbabile piattaforma sociale a margine della propria offerta musicale.
Dentro questa rilevante confusione, per lo meno fra gli utenti avanzati, una discreta funzione normalizzatrice la hanno avuto fino ad oggi le API. Io scrivo 140 caratteri su Twitter, quelli passano automaticamente nel mio wall su Facebook e da lì rimbalzano su Friendfeed, che è l’unica piattaforma di cui in fondo mi interessa qualcosa. Parlo insomma a nuora perché suocera intenda. Ma in ogni caso con un gesto singolo conservo una unitarietà di intenti distribuita senza sforzo su ambiti molto lontani. Questo mio interesse leggermente ossessivo di essere presente contemporaneamente dentro luoghi differenti è esattamente opposto a quello dei fornitori di piattaforma che mi vorrebbero tutto per loro, per cui non so se il tempo delle API liberamente disponibili, all’aumentare della competizione, godrà prossimamente di grandi successi.
In questo scenario nell’ultima settimana è piombato Google Plus . L’ennesima piattaforma di condivisione multipla, meno confusionaria di Facebook ma anche meno intuitiva e efficace di Friendfeed, fortificata dai tanti saldi legami di rete che Google ha saputo creare in questi anni. Ricerca, webmail, foto, video ma anche, prossimamente, feed RSS e chissà cosa d’altro.
Non è chiaro a chi si rivolgerà G+. Non saranno troppi quelli che sceglieranno di aggiornare Facebook e Google Plus contemporaneamente, duplicando contatti e relazioni. Il numero complessivo dei social network che ci servono è sempre uguale a uno. E non c’è dubbio che la piattaforma di Google giunge con forte ritardo in una arena già fortemente presidiata. In contesti del genere non basta avere un prodotto migliore, ammesso che G+ lo sia, occorre qualcosa di più per spostare di peso i 750 milioni di utenti di Facebook altrove. Una impresa improbabile anche per un gigante come Google che incidentalmente proviene da una bella serie di formidabili insuccessi in ambito social: rivoluzionarie idee come Buzz o Wave , presentate e poi rapidamente abbandonate .
Oppure conterà la noia o, se volete vederla dall’altro lato, il desiderio di novità degli utenti. Che, ogni tanto, per ragioni incomprensibili su Internet voltano le spalle al vincitore per rivolgersi altrove, magari al piccolo progetto periferico ed innovativo. Ma è la storia romantica di Davide contro Golia, dell’imponderabile verso l’usuale, quasi mai del colosso che ne sostituisce un altro.
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