La scelta di Marissa Mayer di dichiarare la fine del telelavoro a Yahoo! è una decisione forte. Può significare una di queste due cose oppure entrambe: 1) a Yahoo sono molto nei guai; 2) nella Silicon Valley non esistono verità consolidate, quello che ieri era buono magari oggi non lo è più.
Ha dichiarato la Mayer in un annuncio svelato da AllThingsD che ha scatenato grandi polemiche:
“Per diventare il miglior luogo di lavoro, la comunicazione e la collaborazione saranno importanti, così abbiamo necessità di lavorare fianco a fianco. Per questa ragione è fondamentale essere tutti presenti nei nostri uffici. Alcune delle migliori decisioni ed intuizioni escono da discussioni davanti a d un caffè o nei corridoi, quando si incontrano nuove persone o durante meeting improvvisati. La velocità e la qualità sono spesso sacrificate quando si lavora da casa. Abbiamo bisogno di essere una sola unica Yahoo! e questo inizia stando fisicamente vicini”
Che Yahoo! sia molto nei guai è fuori di dubbio. L’arrivo della Mayer, CEO incinta ma ugualmente iperattiva, proveniente da Google e salutata come salvatrice delle sorti aziendali, è servito inizialmente a placare le attese su una nuova autorevole leadership. Dopo un breve idillio iniziale nella nuova relazione con i propri dipendenti la nuova capo azienda sembra ora essere passata dalla carota (cibo gratis e iPhones per tutti) al bastone.
Nei commenti letti in questi giorni molte delle motivazioni favorevoli alla decisione di Yahoo! di abolire il telelavoro per i propri dipendenti si limitano alla constatazione che se domani l’azienda californiana dovesse fallire, tutto il lavoro scomparirà e non solo quello a distanza; semmai colpisce che una simile scelta strategica venga presa in considerazione da un’azienda tecnologica che il telelavoro ha mille ragioni per favorirlo. Uffici in tutto il mondo, lavoro prevalentemente creativo ed intellettuale, fusi orari, tutte caratteristiche aziendali che, teoricamente, dovrebbero far prevalere flessibilità e scarsità di regole al rigido intruppamento dei dipendenti di stampo fordista.
Si aggiunga che dagli studi scientifici sul telelavoro tentati in questi anni e di cui si ha notizia mai una volta è uscita l’indicazione che una simile pratica andasse osteggiata per ragioni legate alla produttività. Ricerche di Stanford, del Politecnico di California e di Cisco sono concordi nel ritenere che, anche nei casi peggiori, il telelavoro aumenta – magari di poco – o lascia invariata la produttività. Nessuno insomma che in questi anni abbia sostenuto quello che oggi Yahoo! sostiene, vale a dire che la flessibilità delle condizioni di lavoro è da ostacolo all’interesse aziendale.
E sebbene, come sempre accade in questi casi, alcuni ex-dipendenti di Yahoo! vadano in queste ore raccontando ai media statunitensi che il telelavoro a Yahoo! era una falla vistosa attraverso la quale dipendenti stipendiati lavoravano poco o si occupavano d’altro, la decisione d Marissa Mayer incide fortemente su una retorica new economy che anche oggi dentro le grandi aziende tecnologiche americane permane e ne disegna i tratti di una compiaciuta diversità.
I tavoli da ping pong o le palme di plastica sulla scrivania, il cuoco e la palestra aperta 24 ore, la piscina aziendale e il centro massaggi: quante volte nell’ultimo decennio noi grigi lavoratori occidentali abbiamo dovuto subire il racconto estasiato di una nuova etica aziendale costruita a colpi di nuova responsabilità individuale, benefit e barriere abbattute? Un racconto fortemente estetico dedicato forse più agli amanti della superficie (bastò anni fa un romanzo di Douglas Coupland, Microservi , a scardinare dall’interno alcuni miti libertari delle aziende dove i meeting si svolgevano mollemente allungati su prati all’inglese sorseggiando un intruglio energetico) ma che oggi subisce un ulteriore colpo.
Il telelavoro probabilmente non è il male, anzi in certe realtà aziendali del pianeta digitale non sembrerebbe esserlo per nulla, ma quando un’azienda è in crisi restare fuori azienda probabilmente può diventare una via di fuga e se il prezzo da pagare è quello di perdere alcuni dei migliori di noi indisponibili ad un lavoro transennato dalle sottili pareti di laminato di un open space, ricompattando gli altri, allora forse – deve essersi detta Marissa Mayer – potrebbe trattarsi di un percorso possibile. Difficile essere d’accordo se si osserva il tutto con l’occhio rilassato di chi vede idee e creatività fluire tranquillamente a progettare nuovi business, difficile dissentire a priori se il tema è salvare il salvabile di una grande azienda tecnologica troppo rapidamente invecchiata.
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