Due o tre cose che penso di Wikileaks. Wikileaks, come sapete, è un sito che si occupa di pubblicare in rete documenti scottanti di varia natura. Fino a qualche mese fa si trattava di una pagina web quasi per addetti ai lavori, dove giornalisti di tutto il mondo trovavano spunti e materiale per i propri articoli. Per esempio circa un anno fa Wikileaks pubblicò migliaia di trascrizioni dei messaggi trasmessi da molti apparati elettronici (in gran parte pager ) il giorno dell’attacco alle Torri Gemelle: i tabulati contenevano in grandissima parte messaggi di scarso interesse, ma la sola esistenza di questo archivio, raccolto non si sa bene da chi, sollevava interrogativi importanti sull’enorme apparato di controllo esistente sulle comunicazioni del territorio americano già in epoca precedente all’11 settembre.
Negli ultimi mesi Wikileaks, per danno o per fortuna, è diventato molto famoso e frequentemente citato anche dal giornalismo mainstream: gli ultimi due casi, giunti sulle pagine dei quotidiani e dei siti web di tutto il mondo sono quello di Collateral Murder ( video di un crudo attacco da parte di due elicotteri Apache americani contro civili in Iraq), e quello recentissimo della pubblicazione di migliaia di documenti segreti sulle attività di guerra in Afghanistan (i cosiddetti Afghan War Diary ). In particolare questi ultimi hanno definitivamente cambiato le carte in tavola del panorama informativo nel momento in cui tre grandi ed autorevoli giornali (il New York Times , il Guardian e il settimanale Der Spiegel ) hanno pubblicato in contemporanea inchieste molto estese originate dal materiale raccolto da Wikileaks.
Il primo aspetto interessante è proprio questo: la fonte controlla la notizia. Fino a ieri accadeva il contrario. Un piccolo sito web gestito da 5 persone e con un unico uomo copertina (l’attivista australiano Julian Assange, anima del progetto, in questo periodo intervistato dai media di tutto il mondo) non solo diventa il collettore di informazioni riservate (sono attesi per le prossime settimane documenti sullo scandalo BP) che giungono via Internet, ma è in grado di gestire il flusso informativo mantenendone il sostanziale controllo. In una sorta di inedita inversione delle parti Wikileaks (e dietro di lei l’azione collaborativa dei cittadini) detta l’agenda e il giornalismo segue. Nel caso del drammatico video girato a Baghdad, Reuters aveva chiesto per molto tempo che in base alla normativa USA vigente il materiale sull’attacco degli elicotteri Apache fosse reso pubblico: invano. Wikileaks lo ha semplicemente pubblicato in Rete.
La logica di Wikileaks del resto è perfettamente aderente allo spirito della Rete: ne riassume grandi pregi ed enormi rischi. Libera, con la collaborazione di tutti, risorse informative che diversamente sarebbero rimaste bloccate dai tanti ingranaggi del potere, ma si presta anche a strumentalizzazioni e doppi giochi. Proprio per questo l’alleanza con il miglior giornalismo di inchiesta è non solo utile ma vitale: nessuna esperienza di rete partecipata potrebbe dedicare tempo e risorse al controllo delle fonti come è accaduto nel caso dei War Diary . Contemporaneamente la Rete impone la sua declinazione di trasparenza che non prevede mediazioni giornalistiche forti, ma spesso cinica e piana esposizione delle notizie. E forse un simile collettore di fonti potrebbe domani intersecare la propria attività anche con altre iniziative giornalistiche a controllo popolare come ProPubblica .
Per queste ragioni oggi Wikileaks è fonte di preoccupazione da parte di quasi tutti i poteri forti, a partire dal governo USA , ed è nemmeno troppo nascostamente detestato da molta stampa mondiale (in Usa sia il Wall Street Journal che il Washington Post ne parlano malissimo) che, come spesso accade, sembra più sensibile alla invasione del proprio campo che non alle speranze di verità dei suoi lettori.
Come molte importanti esperienze di rete, Wikileaks incarna anche una formidabile fragilità: avvocati, minacce e pressioni forti potrebbero farla tacere in un attimo. Non casualmente proprio in questi giorni, come nelle migliori trame spionistiche, Assange ha messo online (sul sito degli Afghan War Diary di Wikileaks e nei circuiti torrent) un misterioso documento chiamato “Insurance file”, il cui codice di decodifica potrebbe essere diffuso nel caso di una sua scomparsa. Ma quella stessa fragilità, fatta di un piccolo progetto collaborativo itinerante, basato su finanziamenti dei lettori e sul lavoro di un piccolo gruppo di volontari, è la forza dei progetti di rete basati sulla condivisione e sulla semplice duplicazione dei contenuti.
La collaborazione di progetti simili con il miglior giornalismo (quest’anno una giornalista di ProPublica , Sheri Fink, ha vinto il Premio Pulitzer con una inchiesta pubblicata dal New York Times ma finanziata dai lettori) è una delle chiavi di volta ed è uno dei tanti meriti non detti della crescita della rete Internet. È come se gli editori, di fronte all’evidenza delle notizie, si liberassero un po’ dalla stretta asfissiante dei grandi investitori e della politica che li opprime per tornare a parlare direttamente ai propri lettori.
Dall’altro lato su temi importantissimi e centrali per le democrazie come il giornalismo di inchiesta, nessun meccanismo di rete di quelli che contribuiscono all’emersione delle migliori notizie potrebbe da solo creare una scaletta ragionevole delle notizie. La Rete collabora e diffonde informazioni: la stampa accetta di fare forse un passo indietro nel suo ruolo di essenziale megafono, ma assume una chiara ed inestimabile funzione di filtro per tutti noi.
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