Una distrazione capita a tutti, due sono nell’ordine delle cose, tre diventano sospette, dalla quarta in avanti si tratta probabilmente di distrazioni volute. Con Facebook le cose vanno così: l’azienda è giovane e dinamica, ha molto successo, offre una piattaforma molto utilizzata che collega 500 milioni di persone tutto il mondo ed è una azienda molto svagata, con una ormai solida allergia per la privacy dei propri utenti raccontata da un numero impressionante di recenti ripetute distrazioni.
La presentazione di Places , il nuovo sistema di geolocalizzazione di Facebook, non ha deluso i critici più attenti del social network di Mark Zuckerberg. Tutti lo sospettavano e così è stato: il servizio, partito per ora solo in USA, ha più buchi nella riservatezza dei suoi utenti di un formaggio svizzero e sono buchi intenzionali, pensati a tavolino e talmente dolosi da non poter essere diversamente spiegati. Del resto la logica dei grandi numeri è dalla parte di Facebook: su 500 milioni di utenti quanti si occuperanno delle conseguenze dei propri aggiornamenti di stato collegati al luogo fisico dove si trovano in quel momento? Pochi probabilmente, un numero abbastanza basso da consigliare a Facebook di osare, raccogliendo nuove informazioni appetibili senza farsi troppi scrupoli, confidando sulla scarsa attenzione dei propri utenti.
Così da qualche giorno girano per la rete approfonditi vademecum (ce ne è uno anche in italiano curato da Roberto Felter ) su come settare le complicatissime opzioni di privacy di Facebook Places, per impedire per esempio che qualche nostro caro amico racconti a tutti dove siamo in un dato momento senza il nostro permesso o, peggio, faccia check-in per noi in un luogo dove non siamo mai stati. Potenza dello sharing universale che è il nuovo verbo di Facebook: condividere tutto con il maggior numero di persone, complicando, per quanto è possibile, le impostazioni utili ad impedirlo.
Da qualche anno a questa parte lo si sente ripetere spesso: i servizi di geolocalizzazione sono una degli inevitabili sviluppi della Internet mobile. Questo è vero per due ragioni: perché tali servizi sono interessanti per gli utenti e perché sono interessanti per le aziende. Esiste però un terzo soggetto che si occupa di mediare posizioni ed interessi ed è il gestore della piattaforma. Posto che a me interessi informare i miei contatti sui luoghi in cui mi trovo e che alle aziende interesserebbe sapere dove sono per localizzare meglio i miei consigli per gli acquisti, chi si occupa di incrociare simili lontanissimi interessi?
L’interesse degli utenti sarebbe che il mediatore fosse trasparente, vale a dire che non mediasse nulla, che fornisse una piattaforma sociale adatta ai nostri eventuali check-in in mobilità e che non si occupasse d’altro. Non si tratta di una ipotesi irragionevole. Il geotagging potrebbe per esempio essere una commodity compresa nel prezzo del nostro contratto di accesso alla Rete, magari un servizio offerto dagli ISP e come tale tenuto lontano dalle mire più immediate del marketing mobile. Oppure potrebbe essere un servizio a pagamento o una iniziativa di ingegneria sociale del software senza scopo di lucro. Tutto questo fino ad ora non è accaduto ed anzi tutti gli esperimenti fino ad oggi presentati, dal fallimentare Latitude di Google, ai più recenti Foursquare e Gowalla, accentuano molto questa figura del terzo incomodo, spingendo molto sulla relazione fra servizi e pubblicità, a volte giocherellando, a volte stimolando la nostra passione per le offerte speciali, ma sempre e comunque allargando il pubblico della nostra dichiarazione di posizione ad una platea molto più ampia di quella per noi interessante.
È – dicono – il prezzo da pagare per il servizio offerto, ma non ci sono solidissime ragioni per cui debba essere per forza così.
Facebook Places non fa eccezione, anche se gode di una formidabile integrazione col più utilizzato social network mondiale che fa immaginare un rapido annientamento della concorrenza. E anzi, proprio in virtù di questo strapotere, sarebbe stato forse possibile immaginarlo come un servizio prima sociale che commerciale. Ma così non è stato: Places, già in fasce, mostra con chiarezza esattamente come i suoi concorrenti questo desiderio di esplorare non tanto il grafo sociale applicato alla nostra mobilità, quanto la possibilità di monetizzare rapidamente le informazioni degli utenti rivendute agli uomini del marketing.
Si tratta dell’ennesima delusione di Facebook, il cui desiderio di scambiare dati per denaro è ormai una ossessione tanto evidente quanto goffamente mascherata con i soliti mezzi: per esempio complicando ad arte i menu a tendina dei profili della privacy dei propri amati utenti.
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