Qualche giorno fa, nella sede di Yahoo! a Milano, siamo finiti a chiacchierare della stranezza delle chiavi di ricerca immesse dagli utenti nei motori. Molte persone, come è noto, usano la form dei motori come strumento rapido per raggiungere pagine web conosciute: per esempio, un numero considerevole di persone, per accedere a Facebook, scrive “facebook” nella form di Google. E non hai idea – mi diceva sorridendo il responsabile italiano delle ricerche di Yahoo! – di quanta gente cerchi “yahoo” dentro Yahoo!. Fuori dalle facili valutazioni sulla ampia variabilità delle competenze informatiche degli utenti della Rete, questi comportamenti raccontano abbastanza chiaramente quanto i “segnalibri” dei browser web siano strumenti che, per lo meno nella navigazione elementare di molti, siano rapidamente invecchiati con gli anni.
I motori di ricerca sono da tempo al centro delle nostra esperienza di navigazione, per questa ragione i temi che riguardano le loro funzionalità interessano non solo i professionisti del posizionamento, gli spammer o le singole aziende che cercano maggior visibilità, ma fanno anche parte di una discussione culturale che interessa ognuno di noi. Per esempio, quando certa stampa in Italia desidera mettere Google in cattiva luce lo fa insinuando che i risultati del motore non siano “giusti”, che Google abbia sfavorito questo o quel sito o, peggio, che i risultati delle nostre ricerche siano mediati da una contrattazione economica non dichiarata.
Così, quando qualche settimana fa Google ha reso disponibile un plugin per Chrome, attraverso il quale personalizzare le proprie ricerche eliminando dalla lista dei risultati ottenuti i siti che riteniamo non utili, da un lato il singolo utente si è trovato fra le mani uno strumento per migliorare la propria esperienza di ricerca (io, per esempio, detesto da sempre trovare in cima ai risultati per un prodotto commerciale la lunga lista dei tanti comparatori di prezzo, e li ho immediatamente eliminati senza remore dai miei risultati); dall’altro, il fatto che il plugin trasmetta a Google i risultati delle nostre scelta ha subito suggerito tecniche complottiste ai danni dell’algoritmo stesso. Cosa succederebbe se gruppi di utenti prezzolati segnalassero tutti come “fastidioso” il sito dell’odiata concorrenza?
La sola esistenza di simili discussioni spiega la attuale centralità dei motori di ricerca: da questo punto vista il fatto che la stragrande maggioranza degli utenti mondiali della Rete utilizzi lo stesso motore non è una buona cosa, e complica ed amplifica discussioni e sospetti.
In attesa che la versione USA di Bing approdi anche da questa parte dell’oceano, c’è un altro aspetto significativo nella evoluzione dei motori di ricerca in questi ultimi anni ed è l’ossessione per il tempo reale. I risultati della SERP di Google sono ormai quasi istantanei, e se questo da un lato svela una sotterranea presunta competizione con i feed testuali in rapido aggiornamento come quello di Twitter (che negli anni si è nettamente spostato da strumento di rete sociale verso una più chiara funzione informativa), dall’altro orienta l’essenza stessa del motore, riducendone le caratteristiche classiche di indice ragionato della biblioteca universale di Internet.
Google oggi assomiglia molto di più ad un quotidiano che non ad una enciclopedia, lo sforzo di indicizzazione insegue più l’aggiornamento delle notizie che non l’analisi semantica delle ricerche. Nello stesso tempo un terzo degli utenti di news giunge ai siti dei grandi editori (gli stessi editori che non perdono occasione da qualche anno per gridare contro il motore di ricerca cattivo) proprio dalla form di ricerca di Google, e questo certamente in parte dà ragione alle scelte di Mountain View dove comunque, silenziosamente, si devono essere accorti del problema, visto che da qualche tempo dalla homepage del motore è possibile selezionare direttamente l’intervallo temporale delle ricerche.
Tuttavia il tempo reale spegne il proprio valore informativo nell’arco del poco tempo che sostituisce una notizia con un’altra, mentre una simile prevalenza cronologica delle notizie resta poi cristallizzata nei risultati dei motori. E questo dal mio punto di vista riduce la capacità dell’algoritmo di Google di restituire senso compiuto e ragionato alle ricerche. Se escludiamo le voci di Wikipedia, che da sempre emergono nelle ricerche con nettezza, Google sembra sempre meno in grado di gestire la biblioteca del sapere partendo da una visione d’insieme.
Per fare un esempio di quanto vi sto dicendo provate a cercare Mike Bongiorno su Google e osservate i primi 100 risultati. Nella stragrande maggioranza dei casi riguardano o il recente furto della salma o notizie riferite ai giorni della sua morte (nel 2009). Nelle prime cento pagine rilevanti su Mike Bongiorno la “fenomenologia di Mike Bongiorno” di Umberto Eco , il primo dei tanti risultati interessanti che mi vengono in mente sul presentatore italoamericano, semplicemente non esiste.
La presunzione di notorietà che Google applica ai suoi risultati su un personaggio pubblico è un ottimo esempio di come sia complicato essere contemporaneamente cronista e memoria storica delle informazioni contenute in Rete. Personalmente, preferirei i motori si occupassero con efficacia della seconda: speriamo che qualcuno prima o poi ci pensi.
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