C’è un aspetto psichiatrico interessante nella vicenda delle valutazioni sulla forza commerciale di iTunes. Come è noto, a seguito di un report di Josh Bernoff di Forrester si è scatenato un pandemonio. Ed è accaduto poichè questo documento per la prima volta dopo molto tempo invertiva una tendenza, quella della travolgente crescita del commercio della musica in formato digitale in ogni angolo del globo. Esiste un fronte compatto di soggetti (noi compresi) che amerebbe vedere, domani o dopodomani, un nuovo business della musica approdare finalmente su Internet. Per molti di questi soggetti (noi esclusi), da Apple a tutte le major del disco, da Microsoft a tutte le aziende tecnologiche che hanno interesse a vario titolo nella distribuzione di musica online, la crisi (presunta e poi rientrata) di iTunes equivale alla fine di un sogno con annessa dolorosa ed inattesa caduta sul pavimento.
L’aspetto psichiatrico è che oggi sembrano essere tutti in fila dietro ad Apple. Se Apple va male, domani andremo male anche noi – sembrano pensare in molti – se Apple continuerà a macinare numeri da record (puntualmente sottolineati ad ogni piè sospinto come si fa in tutte le campagne trionfali) ci saranno spazio e possibilità anche per noi. Questo è tanto più vero se si pensa che figli e figliastri della iniziale intuizione di Steve Jobs sulla distribuzione musicale in rete (una intuizione come si sa, difficilmente astraibile dal suo contesto complessivo, vale a dire che “il” business di Apple è “prima” quello di vendere iPod e “poi” musica) nel momento in cui i numeri sembravano indicare una grande crescita del fenomeno sono stati molto risoluti e veloci a mollare qualche calcetto al modello di business di Apple, prima tentando di alzare i prezzi dei singoli download, poi immaginando possibilità di prezzi differenziati, poi partecipando ad altre piattaforme analoghe, tentando insomma (giustamente da parte loro) di “sparigliare” una situazione nella quale Apple usava il suo store per fini propri, incatenando le major del disco a modelli di vendita molto centrati sull’utente e molto meno sulle esigenze del grande moloch della distribuzione musicale vecchio stile.
Semmai quello che la grande industria discografica sembra continuare a non capire è che il modello di vendita online che tiene in grande conto le esigenze dell’utente (possibilità di back-up e duplicazione dei file, DRM leggeri ecc) non è solo la maniera di Apple per invogliare i propri utenti a comprare sul proprio store on line, ma, banalmente, l’unica maniera possibile per chiunque voglia fare business in rete in questo ed altri campi.
Oggi non mi pare troppo interessante valutare le motivazioni per cui il report di Forrester è stato poi smentito dal suo autore, da Apple stessa (che del resto non fornisce troppi dati sulla attività del suo store) e da un buon numero di altre analisi (precipitosamente pubblicate nell’ultima settimana a tutela – verrebbe da pensare malignamente – delle azioni Apple che in mezzo a tante discussioni hanno subito qualche pericoloso ondeggiamento) quanto capire se, nel bailamme similfilosofico sul web 2.0, sulla centralità dell’utente, sul valore dei contenuti generati dagli utenti stessi, la grande industria discografica sia in grado di affrancarsi da Apple producendo proposte interessanti ed equilibrate per l’utente stesso, anche considerando che, come si è sottolineato anche in questi giorni, la grande parte della circolazione del materiale musicale in rete passa (e verosimilmente continuerà a passare) attraverso canali differenti da quello della compravendita on line e che anche solo immaginare di rendere questa quota residuale è una pia illusione.
Fra le due variabili maggiori, che dal mio punto di vista sono quella del prezzo e quella dei DRM, non si è fatto ancora abbastanza anche se ci sono piccoli marginali segnali di una tardiva “considerazione” del problema: la paura del P2P e la lenta continua decrescita delle vendite offline hanno fino ad oggi congelato ogni ardire, tanto che quella di Apple resta ancora la piattaforma più “libertaria” fra quelle esistenti.
Qualche settimana fa ad un convegno al quale ho partecipato, ascoltavo Andrea Rosi di Sony-BMG esprimere punti di vista condivisibili sugli “errori” e sui ritardi delle grandi major discografiche nei confronti dei propri clienti e della propria discesa commerciale in rete e nel contempo segnalare una costante e continua crescita della percentuale di vendite della sua società in rete (con percentuali che ormai si avvicinano al 10%). Qualche giorno fa Bill Gates, incontrando a Redmond un piccolo gruppo di blogger americani ha detto cose sui DRM che sarebbero state inconcepibili fino a pochi mesi fa. Gates ha detto che il DRM attuale “causes too much pain for legitmate buyers” . Certo la soluzione proposta da Gates a questo problema non è la migliore possibile – cito sempre traducendo da TechCrunch che era presente all’evento: “Le persone dovrebbero semplicemente comprare un CD e ripparlo. Così sono a posto legalmente” , ma per lo meno parrebbe che anche a casa Microsoft i DRM sono oggi un problema all’ordine del giorno.
Per il resto – crisi o non crisi – lo store online di Apple sembra destinato a continuare a fare da rompighiaccio all’interno di nuovi modelli di business. La differenza consistente che continuerà ad esistere anche prossimamente è che l’azienda di Steve Jobs produce navi e non lame rompighiaccio. Se le aziende di lame rompighiaccio avranno l’ardire di iniziare a muoversi da sole, mi pare abbiano di fronte solo due alternative: o acquistano una nave (pensate a Zune di MS) o si dotano di un bel paio di lame “differenti” per pattinare sul ghiaccio senza romperlo. Tenendo presente che su Internet ci saranno un sacco di persone pronte a comprare il biglietto per applaudirne le evoluzioni.
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