Sono seduto su un masso di granito in una bella spiaggia bretone a Ploumanach. Ho scelto una posizione strategica, subito dopo una curva che apre ai turisti in arrivo sul sentiero dei doganieri lo scenario incredibile di questi enormi sassi rosa modellati nei secoli dal vento e dal mare. Li sto osservando da un’ora e la scena si ripete quasi ogni volta uguale: il turista svolta l’angolo, osserva stupito per un istante lo spettacolo della natura che improvvisamente si ritrova di fronte, poi impugna la fotocamera che ha con sé per iniziare a riprendere la scena dal maggior numero di angolazioni possibili.
La fotografia digitale nel giro di pochissimi anni ha sepolto vecchie schiavitù che ci hanno accompagnato per buona parte del secolo scorso. Ricordo che mio padre scattava spesso due copie simili delle sue foto più importanti, nel caso una fosse venuta mossa, o la pellicola avesse preso luce. Il passaggio al digitale ha scardinato aziende, riconvertito lunghe filiere produttive (sviluppatori, stampatori ecc) ma ha soprattutto cambiato radicalmente le nostre abitudini di osservatori.
I turisti che sto guardando da un po’ hanno affidato all’occhio elettronico la parte più rilevante della propria esperienza: lo hanno fatto in massa, da qualche anno a questa parte e non solo qui ovviamente. Osservare questa spiaggia formidabile che si ritrovano davanti è bello ma non altrettanto importante del documentarne l’aspetto su una memoria digitale che potrà essere domani mille volte riprodotta. Il valore che attribuiamo a questa capacità di replica è quindi in qualche modo superiore a quello della umana registrazione degli eventi, dove il ricordo è solo nostro, seppur arricchito da una serie di informazioni che nessuna fotocamera o telecamera potrà mai restituire (gli odori, il rumore del mare in lontananza, i nostri pensieri in quel momento).
Non si tratta di una forma di inaridimento sentimentale, molte delle tecnologie recenti sono anzi potenti mediatori culturali: scattiamo fotografie per poterle raccontare domani ad amici e parenti, utilizziamo computer e telefoni per arricchire la qualità (o almeno la quantità) delle nostre relazioni sociali. Quando osserviamo due adolescenti a tavola con i genitori al ristorante, chini sui piccoli display dei loro cellulari, non stiamo seguendo solo la scena di una moderna degenerazione dei costumi, stiamo contemporaneamente guardano anche nuovi percorsi di persone che cercano altre persone.
Fuori da ogni moralismo improvvisato (quello solito secondo il quale ogni nuova scelta, specie se mediata dalla tecnologia, è orribile e peggiorativa rispetto all’esistente) la grande parte del nostro tempo è impegnato ad inviare piccoli segnali al mondo intorno a noi. E così davvero suona come una intollerabile sciocchezza quella letta in questi giorni di una ricerca che avrebbe testato la rilevanza dei contenuti di Twitter.
Secondo tale “studio” solo il 60 per cento dei contenuti che transitano per la piattaforma di microblogging californiana sarebbero significativi, il restante 40 sarebbero invece “chiacchiere inutili”. C’è da non crederci. La grande maggioranza dei nostri atti comunicativi sono gesti che hanno modesta diffusione (nel senso che riguardano un numero di persone molto limitato) e quasi nessuna capacità informativa. Sono fotografie scattate a caso alle quali demandiamo il compito di parlare di noi stessi.
L’aspetto semmai impressionante è osservare come tali pratiche tecnologiche siano ormai diffusissime in tutto il mondo ed ugualmente applicate ad ogni latitudine. Il ragazzino che canta al concerto del proprio idolo con il braccio sollevato al cielo a scattare foto a caso è lo stesso ovunque, così gli adolescenti avvolti dalla nuvola dei propri SMS, così il turista di Ploumanach travolto dall’urgenza di dover al più presto documentare l’eccezionale.
Ieri sera qui a Perros-Guirec, terra di grandiose maree, c’era una risacca formidabile così come non ne avevo mai sentite. È stato un attimo: ho usato un software sul mio iPhone per registrare il suono fragoroso dei sassi spostati dalla forza del mare, ho spinto il tasto “publish” e ho mandato quel suono emozionante sul mio social newtork preferito . Sto ancora aspettando di sapere cosa ne pensano i miei amici.
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