Una volta all’anno Between organizza a Capri un incontro fra i protagonisti delle TLC italiane. Ministri (sia Brunetta che Romani erano attesi ed in programma ma hanno inelegantemente dato buca all’ultimo momento), presidenti ed amministratori delegati delle principali aziende tecnologiche del paese, politici e imprenditori si incontrano, si parlano, tessono relazioni e discutono nelle varie sessioni del convegno e nei vari eventi collaterali con i faraglioni sullo sfondo. Quest’anno sono andato anch’io, a vedere, come dicevo scherzando un po’ con tutti, i grossi pesci nell’acquario dello sviluppo tecnologico del paese. Da fuori è uno spettacolo interessante.
La scomparsa di Steve Jobs ha segnato il primo giorno di incontri. Forse il numero di iPad in sala sarebbe stato sufficiente per descrivere il senso di partecipazione al luttuoso evento: la figura del fondatore di Apple ha avuto un impatto fortissimo, non solo sull’utenza consumer ma anche sulla idea stessa di imprenditoria tecnologica. Essere Steve Jobs è stato, in fondo, il sogno non detto di molti dei grandi imprenditori in sala. Assomigliare a Jobs, sapendo bene di non esserlo, il necessario principio di realtà, magari utile anche solo alla propria estetica aziendale.
Il viaggio verso Capri è anche un viaggio dentro la complessità dei temi di cui discutiamo ogni giorno. Dietro ad argomenti fondamentali come quello della banda larga o della rete di nuova generazione si allunga una catena di intermediari di cui l’ingenuo commentatore può non avere sentore. Ci sono le agenzie europee (l’intervento di Lucilla Sioli della UE è stato uno di quelli che ho preferito), gli uffici ministeriali italiani, le società di consulenza, i cacciatori di teste, gli uffici stampa ed i giornalisti al seguito. Una specie di Monkey Island in giacca e cravatta che, nella mia ingenua semplificazione di appassionato, da un lato racconta una complessità effettiva, dall’altro segnala una spiacevole sensazione di elegante circo automantenuto.
La sostanza dei fatti ascoltati è in ogni caso dipinta della medesima tinta deprimente che sospettavamo prima di salire sull’aliscafo. I piani dell’agenda digitale europea prevedono il 100 per cento di case connesse in larga banda nel 2015 e 30 mega per tutti nel 2020 (e per quella data almeno il 50 per cento di connessioni a 100 mega) ma sono piani che, per essere raggiunti, dovranno riguardare la media dei cittadini europei. Tutti sanno già oggi che, per alcune nazioni che hanno progetti ben all’interno di simili griglie (la Danimarca per esempio ha già annunciato che i suoi cittadini avranno tutti 100 mega entro il 2015), ce ne saranno altre, e l’Italia è certamente fra queste, che falliranno simili obiettivi. Le ragioni di questa debacle annunciata sono molteplici e riguardano un ritardo culturale già noto e molto saldo (il 42,1 per cento degli italiani non ha mai usato Internet contro una media europea del 26,2), le finanze dello Stato, che sono quello che sono (e nessuno che dalle parti dei decisori interessati, possieda l’intuizione disperata e saggia di dedicare al settore delle TLC i pochi soldi rimasti), gli operatori che litigano fra loro, i burocrati che burocratizzano e gli amministratori locali che intralciano quelli nazionali.
La giacchetta dell’accesso alla Rete e del business che lo riguarda continua ad essere tirata da molte parti. Per esempio gli operatori delle telecomunicazioni reduci dalle costose aste per le frequente del 4G ora sostengono a gran voce il fatto che saranno simili investimenti a ridurre il digital divide del paese. E per chi ha memoria questa interpretazione ricorda da molto vicino i discorsi fatti ai tempi dell’UMTS, quando il grande moderno innamoramento degli italiani per la telefonia mobile avrebbe dovuto chiudere voragini di accesso alla Rete che oggi sono invece perfino più ampie di allora.
Poi ci sono i giochi di palazzo e le sinergie non dette: per esempio, quando – esattamente – l’Agcom, che rappresenta in ultima analisi (non ridete) gli interessi dei cittadini, ha deciso di schierarsi così nettamente contro la neutralità della Rete, visto che il suo rappresentante al convegno l’ha descritta (mi son segnato l’elegante frase) come “un bocchettone uguale per tutti”?
Da un lato esiste una indubbia eccessiva semplificazione del contesto da parte dei cittadini che vorrebbero (non tutti come si è visto) reti veloci, economiche e diffuse su tutto il territorio per poi magari decidere dopo cosa farne, una aspirazione costosa che non tiene conto delle grandi complessità economiche e regolamentari da affrontare. Dall’altro esistono scelte di indirizzo della architettura prossima ventura del paese connesso che prediligono la visione di breve periodo a quella più ampia e di scenario e che spingono alcune tecnologie rispetto ad altre. E sono responsabilità di molti: dalle compagnie telefoniche, al governo innamorato della TV ed insensibile ai temi dell’innovazione, ai tanti mediatori per i quali qualsiasi business è buono, basta che ci sia da farci affari sopra. Quindi se l’NGN è costosa e fonte di acutissime contrapposizioni capaci di far saltare tavoli e ipotesi di concertazione e, soprattutto, se i denari pubblici della Cassa Depositi e Prestiti diventano pochi e contingentati, si sceglie di soprassedere, preferendo investimenti ed aggiungendo aspettative sull’LTE, oppure presentando progetti di ultrabroadband piccoli e poco impegnativi come quello della annunciata sinergia fra Metroweb e telco nelle grandi città e nei grandi distretti industriali.
Tutto questo è troppo poco per un Paese vecchio e stanco, ma non sembra esserci nessuno, al momento, qui a Capri come altrove, capace di invertire la nostra continua discesa verso la zona retrocessione di tutte le classifiche europee dello sviluppo tecnologico.
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