Roma – Cominciamo con una provocazione: perché mai gli utenti della rete internet dovrebbero mandare i loro contributi fotografici, video o semplicemente testuali ai siti web dei grandi quotidiani? In occasione di eventi drammatici come l’attacco a Londra della settimana scorsa o come quello alle Twin Towers a New York è oggi ben evidente che esista una nuova sussidiarietà dei grandi media, rispetto allo sciame di piccole informazioni che arrivano, da parte dei testimoni oculari, grazie alle nuove tecnologie.
Fateci caso: in occasioni del genere il mestiere del reporter e dell’inviato è oggi destituito della quota principale del proprio significato. Perché ci sarà sempre qualcuno, già sul posto, in grado di raccontare gli eventi. Questo perché oggi esistono strumenti tecnologici di instant publishing (che ruotano tutti, e non a caso, attorno alla rete Internet) che hanno potenzialità ancora non del tutto utilizzate. Il primo che mi viene in mente? Un testimone scatta una foto con il cellulare, spinge un tasto e l’immagine viene caricata su un sito di foto “intelligente” come per esempio Flickr. Da lì, volendo, la testimonianza viene automaticamente ripubblicata su un weblog. Dall’evento alla pubblicazione quanto sarà passato? Non so, forse 5 minuti. In questi casi poi l’efficacia informativa è simmetrica. Tecnologie semplicissime come il “tagging” consentono a qualsiasi lettore, in qualunque parte del mondo di raggiungere le testimonianze appena messe in rete in tempo reale con estrema facilità. Dopo 5 minuti la notizia è online e tutti sanno esattamente dove andarla a cercare. Il reporter del grande quotidiano si sta nel frattempo ancora mettendo il cappotto.
Non è un caso che ieri molta stampa web italiana abbia messo da parte la propria ben nota ritrosia ai collegamenti esterni linkando direttamente la directory delle immagini delle bombe a Londra su Flickr o la schermata di Technorati sugli aggiornamenti del blog di tutto il mondo. Non è un caso che, sempre più spesso (è accaduto anche in occasione dello spaventoso maremoto asiatico del dicembre scorso) i siti web dei grandi quotidiani siano diventati, per loro scelta editoriale, il collettore nel quale si riuniscono i messaggi di testimoni, sopravvissuti e parenti preoccupati in cerca di informazioni. Una funzione di pubblica utilità indubbia.
A questo punto risulterà forse più chiara la “grande contraddizione”: negli eventi di maggior rilevanza mediatica la struttura giornalistica, che vive di grandi costi, rassicurazioni sulla qualità e sulla autorevolezza delle informazioni divulgate, orgoglio professionale ed anche soldi (quelli che ogni mattina paghiamo all’edicola acquistando il giornale) chiede ai testimoni di partecipare alla propria attività commerciale. Lo chiede a titolo gratuito, tuttalpiù facendo leva sulla eventuale citazione (che spessissimo manca) del nome del testimone.
E’ abbastanza ovvio che questo piccolo cannibalismo non ha molte ragioni di esistere e prima o poi si spegnerà da solo: perché la potenza e la notorietà dei media distribuiti è talmente significativa che già oggi sempre più persone, quando accade un evento drammatico come quello dei giorni scorsi, accende il computer ed apre Technorati e Flickr, Wikinews e Del.icio.us e non certo il sito web di questo o quel quotidiano.
Si tratta ovviamente di una questione culturale: non tutti oggi hanno le conoscenze per capire quali strumenti siano efficaci e quali invece non lo siano nella formazione della notizia. Poi esistono ovviamente anche ostacoli linguistici: gran parte della informazione “on the fly” è oggi veicolata in lingua inglese e per molte persone almeno nel nostro paese questa è una limitazione seria. Ma si tratta solo di questione di tempo.
In questa fase intermedia ed in occasione di eventi drammatici il giornalismo partecipativo viene metabolizzato come “possibile” dai grandi giornali: alcuni lo fanno con eleganza (specie in Inghilterra esiste per esempio una grandissima attenzione ai weblog sia sul Guardian che su BBC che su altri grandi siti informativi) altri meno. “Inviateci le vostre foto”, scriveva a chiare lettere e con tono quasi imperativo Corriere.it . Verrebbe da rispondere: “E perchè mai? Sono già su Flickr, andatele a vedere lì”. La retorica giornalistica del “grande apporto dei lettori” è tanto pelosa quando ondivaga. Gli stessi lettori che di norma, gestendo weblog o altri esperimenti di grassroot journalism, non passano con la loro attività quotidiana il severo (?) filtro giornalistico dei grandi media, quando accadono simili eventi diventano “preziosi testimoni”. L’apporto dei lettori è quindi ottimo e abbondante quando partecipa alla formazione degli utili dell’impresa, fastidioso, tediosamente amatoriale e chissà cosa altro in ogni diversa occasione.
E’ abbastanza evidente che da questa contraddizione sarà necessario prima o poi uscire.
Capire Internet e la sua ineluttabilità è il punto. Comprenderne la conoscenza distribuita e il suo valore è un altro punto. In Italia siamo ancora molto indietro in questa necessaria presa di coscienza. Basti pensare ad un altro evento occorso nella mattina di giovedì scorso. A poche ore dalla strage di Londra qualcuno alla Unità di Crisi della Farnesina ha avuto la bella idea di inviare decine di migliaia di SMS agli italiani residenti in Inghilterra. Tenete presente che nella mattina di giovedì per un effetto domino già verificatosi in altre occasioni, molto simile a quanto accade quando un sito web è raggiunto da troppi contatti, prima la rete di telefonia mobile poi quella di rete fissa londinese sono crollate sotto il peso delle troppe comunicazioni aperte. In questo contesto drammatico, una città di milioni di abitanti paralizzata, senza mezzi pubblici e quasi senza contatti telefonici, cosa fa il nostro Ministero degli Esteri preoccupato del proprio “particulare”? Spamma la rete barcollante di telefonia della capitale inglese con i propri (la Farnesina dice 60.000, ma probabilmente molti di più) pressochè inutili messaggini. Londra non è Banda Aceh ed è piuttosto improbabile che qualcuno non sapesse cosa stava accadendo. Pensate inoltre cosa sarebbe accaduto se ogni singolo stato del pianeta avesse fatto lo stesso. Un comportamento tanto irresponsabile quanto legato ad una visione assai ristretta degli interessi in campo che solo in un paese che non capisce la tecnologia può essere messo in atto.
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